Il transunto della pianta delle Valli di Comacchio

Achille Lodovisi

comacchio

Nei secoli passati, lungo l’ampio arco litoraneo adriatico compreso tra Ravenna e Monfalcone, l’alternarsi di lagune, valli salse, aree deltizie e terreni parzialmente prosciugati dava vita a un paesaggio e a un ambiente dai tratti peculiari, una sorta di continente interno caratterizzato dal continuo apparire e scomparire di lidi, banchi di sabbia costieri e ristagni d’acqua. La volatilità morfologica delle zone di costa era generata dalla mutevolezza costante degli equilibri tra l’azione erosiva delle correnti marine lungo il litorale e la deltazione, ultima fase dell’attività dei fiumi che solcavano la pianura padano-veneta depositando alla foce la maggior parte del materiale solido trasportato. Gli esiti dell’opera della natura e degli interventi umani di sistemazione idraulica dei corsi d’acqua o di disboscamento delle terre di pianura e delle pendici montane finivano dunque per misurarsi proprio in questi spazi. Si trattava di un ambiente tutt’altro che economicamente marginale e abbandonato a se stesso: nelle sue condizioni particolari e difficili era cresciuta Venezia, una delle città più popolose e potenti del Mediterraneo; inoltre le lagune e le acque litoranee erano tra le più pescose d’Italia e una spola continua di imbarcazioni trasportava merci di ogni genere, tra cui il prezioso prodotto delle saline costiere, solcando i lidi sino al delta del Po per poi risalire il corso del fiume sino alle città della pianura.

comacchio

A partire dalla seconda metà del Cinquecento il continente interno di terre e acque che separava l’Adriatico dalla pianura coltivata e popolata fu oggetto di piani di conquista e colonizzazione, incentrati sulla realizzazione di complesse trasformazioni idrauliche che avrebbero messo a confronto le ambizioni politiche e gli interessi economici di Venezia, dei duchi di Ferrara e del papa. Tutto questo fiorire d’opere e ideazioni, con i conflitti che avrebbe contribuito a generare o a rinfocolare, non poteva non essere all’origine di una vastissima produzione cartografica che spesso illustrava con grande efficacia quadri ambientali e antropici ormai scomparsi.

Il Transunto della pianta delle Valli di Comacchio, conservato presso l’Archivio di Stato di Modena, è certamente uno degli esiti migliori di tale fervore cartografico, per l’accuratezza con cui fu condotto il rilievo, la precisione del disegno e la grande scala a cui esso venne realizzato (circa 1:15.000), nonché per la raffinata esecuzione artistica. Tutti questi pregi concorrono nel trasformare la mappa in un autentico capolavoro, la cui storia è paragonabile, per interesse, alle sue qualità topografiche ed estetiche. Non siamo al cospetto, infatti, di una semplice carta ma di una copia fedele (transunto), con autentica del notaio della Camera Apostolica Carlo Ghini di Ferrara, tratta dal disegno originale custodito presso l’Archivio Segreto Vaticano (oggi purtroppo in non buone condizioni di conservazione) che venne mostrata al duca di Modena Francesco I tra il marzo e l’aprile del 1658. L’attestazione notarile di conformità, datata 5 giugno 1657, è controfirmata da quasi tutti i maggiori protagonisti delle annose vicende che portarono alla costruzione della mappa: il cartografo e perito d’acque e strade ravennate Pietro Azzoni (1603-post 1665), il commissario della Camera Apostolica Francesco Moroli, il rappresentante del duca di Modena Antonio Mariani consultore estense, il perito di parte modenese Giovanni Fontana Casali. Presente alla stipula dell’atto in qualità di testimone, insieme a Carlo Sacchi da Ravenna, figura un altro importante personaggio coinvolto nella vicenda, il ravennate Luca Danese (1598-1672), cavaliere, giurista, matematico, ingegnere d’acque e fortificazioni, cartografo e architetto.

Una simile procedura di autenticazione, non certo frequente nel caso di raffigurazioni cartografiche, trova la sua ragion d’essere nella notevole importanza politica ed economica assunta dalla pianta, fattore che ne spiega la rigorosa veste ufficiale di vero e proprio documento diplomatico, solennizzata anche dallo stemma di papa Alessandro VII (il senese Fabio Chigi), i cui motivi araldici ricorrono nelle sontuose cornici che racchiudono la topografia, il cartiglio, la legenda e l’autentica notarile.

stamma di papa Alessandro VII
Fig. 1 – Lo stemma di papa Alessandro VII, salito al soglio pontificio il 7 aprile 1655.

L’accurata delineazione, infatti, avrebbe dovuto risolvere definitivamente la controversia insorta tra gli Estensi e lo Stato della Chiesa a proposito dei diritti di proprietà sulle Valli di Comacchio. Quest’area, una delle più pescose dell’intero Mediterraneo grazie alla presenza dei bassi fondali sabbiosi, ospitava da secoli importanti attività come la cattura delle anguille e di altre specie ittiche di pregio ed estese saline. L’economia di valle assicurava dunque introiti ragguardevoli ai proprietari privati dei campi da pesca e alle casse della Camera Ducale estense (e dopo il 1598 della Camera Apostolica). Gli scali litoranei di Magnavacca, Primaro e Goro, situati sul bordo orientale del vasto catino lagunare, rivestivano poi una certa rilevanza per la navigazione di cabotaggio lungo le coste adriatiche, che pur essendo sempre minacciata e disturbata dai veneziani assicurava comunque una parte cospicua dei rifornimenti di sale, olio, grano e vino a Ferrara e al suo territorio.

Il romanzo di una mappa[1]

decorazione con Italia
Fig. 2 – Uno dei numerosi motivi decorativi di squisita fattura presenti nel Transunto: l’Italia nella delineazione tolemaica inscritta in una rosa dei venti.

La controversia su Comacchio prese avvio dopo la stipula delle convenzioni faentine nel 1598, quando la casa d’Este, estinta la discendenza maschile diretta, aveva dovuto devolvere al Papato il territorio ferrarese, feudo della Chiesa, trasferendo a Modena la capitale dei propri domini. Gli Estensi, a cui il trattato consentiva di mantenere il possesso nel Ferrarese di terreni e immobili allodiali, ovvero di proprietà libera senza vincoli feudali, dovettero affrontare un secolare contenzioso con la Camera Apostolica volto non solo ad appurare l’allodialità delle valli, ma anche a dimostrare che tale territorio apparteneva ai feudi imperiali e non al ducato di Ferrara.

L’amministrazione estense riteneva che il governo pontificio avesse proditoriamente occupato molte delle valli della laguna di Comacchio appartenenti al patrimonio della nobile casata ferrarese. La parte avversa considerava invece suo diritto esercitare la sovranità sugli spazi vallivi in quanto essi erano di ragion publica perché alimentati continuamente e per via naturale dall’acqua del mare, che risaliva nella laguna bonificandola e purgandola con la salsedine mediante canali e manufatti idraulici anch’essi pubblici. Le Valli di Comacchio costituivano perciò un corpo unico, la cui sovranità spettava a chi aveva il dominio del territorio ferrarese. La tendenza all’espansione delle acque salmastre, assecondata dal governo pontificio che aveva trascurato di ricostruire l’argine del Mantello separante la Valle del Mezzano (dolce) dalla Valle Agosta (salsa), lo dimostrava.

Questa asserzione, ribattevano gli Estensi, era assai debole e certamente smentita, ad esempio, dalla realtà della laguna veneta, dove la proprietà privata era predominante nonostante gli specchi d’acqua interni comunicassero attraverso i canali direttamente con il mare. La Camera Apostolica, dal canto suo, accampava una serie di altri argomenti a supporto delle proprie tesi. Sebbene certe valli fossero state effettivamente acquisite da alcuni membri di casa d’Este, non si tralasciava di affermare che i venditori le avevano usurpate alla Camera Apostolica detentrice del feudo. Gli Estensi, inoltre, avevano stipulato gli atti d’acquisto pro Camera Ducali e non a beneficio del patrimonio privato della casata. Quest’ultima, infine, non poteva sostenere che i miglioramenti apportati alla gestione delle valli e al sistema di circolazione delle acque avessero fatto mutare la natura dei beni da feudali in allodiali in quanto li feudi si davano ad meliorandum, ragion per cui gli Estensi potevano solo affermare di aver compiuto il proprio dovere di vassalli del papa.

I delegati del duca di Modena contestavano queste tesi ricordando le modalità e i tempi con cui si svolgeva l’attività ittica nella laguna comacchiese. Da marzo-aprile sino a dicembre le valli restavano chiuse alle acque marine e la circolazione interna veniva regolata dai manufatti costruiti da ciascun proprietario nei punti più adatti ad assecondare l’attività ittica. Questo complesso sistema di regolazione dei flussi d’acqua nella vasta e poco profonda laguna costiera, difesa da arginature dalle intrusioni marine, era stato perfezionato nel corso dei secoli XIV e XV proprio per volere degli Estensi. Le valli andavano salvaguardate mediante argini anche dalle irruzioni delle acque dolci dei fiumi, mentre l’ingresso del mare doveva essere regolato da chiuse affinché avvenisse in luoghi e periodi dell’anno non sfavorevoli al ciclo vitale delle anguille, dei cefali e di altri pesci. Queste specie, infatti, nascono in mare aperto per poi migrare verso le acque litoranee dove completano il loro sviluppo, e una volta raggiunta la maturità sessuale riguadagnano i fondali profondi.

Il novellame, giunto in prossimità della striscia di dune sabbiose che orlava la laguna di Comacchio, risaliva tra febbraio ed aprile i canali (montata) che lo portavano all’interno dei campi e delle valli ricavate costruendo arginelli separatori sfruttando antichissimi cordoni litorali o grondaie deltizie. Qui trovava acque meno salate e ricche di nutrimento, ed un ambiente assai favorevole alla sua maturazione. A partire da ottobre, completata la crescita, ripercorreva in senso inverso il tragitto (calata) guidato dalla rottura di determinati argini sino agli sbarramenti dei lavorieri, dove veniva catturato. Le attrezzature, le fabbriche, la cura dei campi, le delicate operazioni che portavano all’esito finale della pesca erano tutte opere dell’uomo, al pari della complessa organizzazione idraulica delle valli che nulla aveva di naturale.

Un articolato complesso di infrastrutture, infatti, regolava i flussi per ottenere il giusto equilibrio nel grado di salinità delle lagune, condizione indispensabile per il buon esito delle attività ittiche. Le valli di sopra, lontane dal mare, pur ricevendo il flusso salmastro raccoglievano soprattutto le acque dolci degli scoli del Polesine di San Giorgio e della Grande Bonificazione ferrarese, ed il loro apporto era necessario per evitare che l’eccessiva evaporazione estiva accrescesse la salsedine nei campi, provocando la morte dei pesci. Esisteva tuttavia un pericolo associato alle esondazioni dei rami del Po di Volano (a nord) e del Po di Primaro (a sud), che cingevano le valli di sopra e con le loro torbide minacciavano di interrirle. Gli specchi d’acqua salmastri prossimi al mare (valli di sotto), necessitavano anche di un ben calibrato apporto idrico dall’Adriatico attraverso le bocche litoranee, pena il prosciugamento per il calore estivo. Gli interventi regolatori sul “grande corpo dinamico ed instabile” della laguna, realizzati dal potere pubblico e dai privati costruendo argini, chiaviche, condotti, paratoie, avevano dunque lo scopo di ottenere un interscambio idrico ottimale tra “valli, mare e fiume Po”[2], unica garanzia di sopravvivenza per l’ambiente, le attività ittiche, le saline e per la città di Comacchio. Le conoscenze dei vallanti, frutto di una esperienza secolare, erano poi determinanti per il successo della pesca in particolare quando si dovevano interpretare le condizioni climatiche favorevoli alla montata e alla calata della fauna ittica[3].

Tutto questo, a detta degli agenti estensi, dava sostanza ad una ragione più che fondata per avvalorare la tesi secondo cui le valli sopravvivevano come sistemi produttivi grazie alla costante opera di manutenzione svolta dai proprietari, e perciò fossero in tutto e per tutto beni allodiali e non feudali.

foce del Po d'Ariano
Fig. 3 – Particolare tratto da una mappa degli anni Ottanta del Cinquecento che raffigura il litorale adriatico da Ravenna alla foce del Po d’Ariano. L’acquerellatura mette in risalto la fitta rete di canali anastomizzati che dalla bocca di Magnavacca immetteva l’acqua marina e il pesce nella Laguna di Comacchio. In corrispondenza dei singoli campi sono disegnati i casoni che ospitavano i vallanti e i loro attrezzi durante la stagione di pesca e nel periodo in cui si effettuavano i lavori di manutenzione. Al centro, nei pressi della valle dell’Isola, si scorge la residenza estense delle Casette, fatta costruire sul finire degli anni Settanta del XVI secolo dal duca Alfonso II (ASMo, Mappario Estense, Serie Generale, n. 149).

La raccolta delle testimonianze a sostegno di questa tesi, rilasciate da periti e ingegneri d’acque, esponenti della nobiltà ferrarese rimasti fedeli agli ex duchi di Ferrara e abitanti di Comacchio, prese avvio nel 1613 e si protrasse per circa trent’anni a causa soprattutto dell’atteggiamento dilatorio dei rappresentanti pontifici. Le dichiarazioni, autenticate da un notaio, furono inviate in copia a Roma come attestazioni della fondatezza delle ragioni estensi. Alcuni documenti particolarmente significativi vennero trasmessi per ordine del duca Francesco I al fratello Rinaldo cardinale, affinché fosse informato sulla vertenza e potesse compiere i passi opportuni all’interno della corte pontificia[4]. Tra questi figurava una mappa delle Valli di Comacchio da confrontarsi con un altro disegno della laguna presente negli archivi romani, opera del gesuita ferrarese Niccolò Cabeo (1586-1650)[5], che si sarebbe dovuta copiare e inviare a Modena per servirsene nel corso della causa[6].

Al cardinale fu trasmessa anche una fede autenticata sottoscritta nel 1646 da sei abitanti di Comacchio in cui si ribadiva che le valli erano divise e separate in “vari corpi particolari, come tante possessioni, et campi”, ciascuna delle quali aveva “la propria habitatione, o casone, et denominatione, et li suoi termini, argini, et confini particolari affittandosi, e pescandosi ne’ modi soliti”. Il pesce, continuava la testimonianza, restava “rinchiuso dentro gli argini fatti di terra, e tresse, et dentro li lavorieri, e porte di esse”. In questi spazi delimitati dall’opera dell’uomo le prede si nutrivano e crescevano e quando giungeva il momento “ciascuno, o padrone o affittuario delle valli, dentro a propri confini e lavorieri di ciascuna” le catturava. Secondo i testimoni, poi, la rotta del Po d’Argenta dell’anno precedente aveva provocato un innalzamento tale del livello delle acque da farle entrare nella “città di Comacchio, nelle strade, et nelle stanze da basso delle case…”[7]. Tutti questi elementi conferivano forza alle tesi della Camera Ducale estense che poggiavano su alcune asserzioni fondamentali secondo cui le Valli di Comacchio non erano un corpo unico, ma un’insieme di tanti corpi separati con propri toponimi, idronimi e confini. L’acqua del mare, inoltre, non poteva entrare naturalmente nella laguna perché si credeva erroneamente che quest’ultima si trovasse ad una quota altimetrica più elevata, come dimostrava quanto accaduto in occasione della rotta del Po d’Argenta, quando si era evitato il peggio aprendo tutte le vie per far defluire le acque del fiume in mare. Solo l’opera dell’uomo, quindi, che aveva aperto il canale Pallotta[8] e la bocca di porto di Magnavacca, era riuscita a regolare il flusso marino all’interno delle valli, affermazione questa difficilmente contestabile[9]. Svariate decine di persone rilasciarono la loro testimonianza ai rappresentanti della Camera Ducale estense; tra questi, Giovanni Battista Aleotti detto l’Argenta (1546-1636) e Bartolomeo Gnoli (ca. 1610-1647). Il primo, architetto, cartografo e ingegnere idraulico tra i più autorevoli del suo tempo, comparve al cospetto del notaio nel marzo del 1614, confermando la tesi sostenuta già nel 1601, secondo cui le acque delle valli comacchiesi pur essendo amare non erano di mare. Dieci anni dopo, su incarico della Comunità di Comacchio e del commissario della Camera Apostolica, condusse una campagna di accurati rilievi basati sulla tecnica della triangolazione tra punti diversi di cui venivano calcolate le coordinate geografiche con l’ausilio dell’archimetro, strumento da lui medesimo messo a punto. I lavori durarono quindici giorni e permisero di raccogliere le informazioni topografiche sufficienti per disegnare una carta molto accurata che successivamente venne impiegata da periti d’acque e cartografi, tra cui lo stesso Bartolomeo Gnoli[10].

Quest’ultimo, architetto, giudice d’argini e di confini della città di Ferrara, a ventidue anni di distanza dal rilievo aleottiano integrò il lavoro dell’Argenta con informazioni topografiche e testuali relative allo stato dei manufatti idraulici e completò la toponomastica delle valli aggiungendo al disegno il tracciato del canale Pallotta, l’infrastruttura idraulica costruita dopo il 1624 che collegava Comacchio alla bocca litoranea di Magnavacca. Nel 1645, Gnoli sottoscrisse come fede giurata una relazione di suo pugno sopra la città e Valli di Comacchio redatta nel gennaio del 1642. Nel testo, il perito ferrarese sosteneva che le valli in origine erano formate da acque dolci; solo successivamente vi furono introdotte quelle salse del mare regolandone il flusso “con industria d’escavationi … con canali e tagli manufatti nel litto del mare e chiaviche nelli argini del Po, con diverse palificate alle porte, che più le rese frutifere di pesce col flusso e reflusso del mare”, così come era da poco avvenuto nelle Valli di Volano e di San Giacomo. Del resto, osservava Gnoli, la stessa recente costruzione del canale Pallotta faceva affluire una maggiore quantità di acqua marina viva nella laguna comacchiese che dava “il flusso e reflusso alla città di Comacchio” ricevendo così “grand’utile, non tanto per la pesca, quanto per la comodità della navigatione oltre che rende assai più sana la città”[11]. La memoria giurata di Bartolomeo Gnoli non fu tuttavia trasmessa a Roma per espressa volontà del teste, al quale gli agenti estensi avevano assicurato che non se ne sarebbero avvalsi nella causa ipso vivente, richiesta che dimostrava quanto concreto fosse il rischio di ritorsioni per i ferraresi che testimoniavano a favore degli interessi ducali.

L’anno successivo, nel 1646, i lunghi negoziati parvero giungere ad una svolta. A Roma si decise infatti di istituire una Congregazione cardinalizia appositamente deputata alla risoluzione della vertenza. Ne facevano parte inizialmente i cardinali Bernardino Spada (1594-1661), Luigi Capponi (1582-1659) e Giovanni Giacomo Panciroli (1587-1651), dopo la scomparsa del quale si aggiunsero, nel 1652, i cardinali Paolo Emilio Rondinini (1617-1668), Francesco Cherubini (1585-1656) e Marcello Santacroce (1619-1674); di queste ultime nomine i rappresentanti estensi non vennero preventivamente informati, facendo sorgere in loro altri sospetti sul comportamento del governo pontificio. La prima determinazione del consesso, fortemente condizionata dalla strategia dilatoria della Camera Apostolica, fu quella di dare il via al disegno di una nuova ed accurata mappa delle Valli di Comacchio, realizzando quanto stabilito da un rescritto pontificio del 1616, rimasto sino ad allora lettera morta.

Ducatus ferrariensis di Giovanni Battista Aleotti
Fig. 4 – Il Ducatus ferrariensis di Giovanni Battista Aleotti inserito nel Teatro del mondo di Abrahamo Ortelio, nell’edizione di Anversa del 1608 tradotta in lingua toscana da Filippo Pigafetta (BEUMo, 19.P.8). Nel disegno è raffigurato il taglio di Porto Viro, avviato da Venezia nel 1599, ancora in fase di escavazione, il cavamento sarà terminato nel 1604.

Del resto, secondo un testimone ascoltato nel marzo del 1647 dagli incaricati estensi (forse un perito o funzionario della parte avversa impegnato in un rischioso doppio gioco), il duca Cesare d’Este non aveva esercitato pressioni affinché quanto stabilito nel 1616 a proposito della nuova mappa fosse tradotto in pratica. Un simile atteggiamento, stando all’anonimo personaggio, era stato dettato dal timore che nel corso della costruzione del documento cartografico qualche persona esaminata potesse arrecare nocumento agli interessi ducali. Morti i vecchi, cioè coloro che conservavano memoria di come erano gestite le acque delle valli all’epoca del governo estense – proseguiva con una punta di malignità – il duca di Modena poteva acconsentire, seppure obtorto collo, alla realizzazione della mappa, che tuttavia in qualche sua parte avrebbe recato pregiudizio agli interessi estensi[12].

Da subito, a Modena, si cercò con ogni argomentazione e mossa diplomatica di contestare la decisione pontificia, impedendo l’esecuzione dell’accurato lavoro topografico, ritenendolo inutile, vista la mole di eccellenti rappresentazioni di quel territorio prodotta nel corso della annosa lite. Ma la Camera Apostolica tenne duro e insistette affinché si procedesse con ogni precisione al rilievo e al disegno della pianta delle Valli di Comacchio e dei luoghi adiacenti. Una simile pertinacia e ostinazione erano percepite dalla parte avversa come chiari segni di un atteggiamento dilatorio messo in campo per “nulla venire a ristretto o conclusione alcuna”[13]. I periti della Camera Apostolica, infatti, avrebbero dovuto “informarsi de siti, delle qualità de canali, onde vengono, ove sboccano, come s’è formata et aggrandita questa e quella valle, che cosa vi ha dentro oprato il mare e l’acqua dolce, e finalmente trattare dell’origine e progresso di ciascuna valle”[14], impresa questa non certo facile, né rapida, vista la complessità morfologica e la lunga storia del territorio da rilevare.

Nessuna informazione topografica o di altra natura avrebbe poi dovuto essere trasposta su carta prima di venir disputata e quindi approvata dai commissari di entrambe le parti. In caso di disaccordo, la Congregazione o il cardinale legato di Ferrara avrebbe nominato una persona terza per risolvere le diatribe, ma in ogni caso il misterioso testimone riteneva che l’intera vicenda si sarebbe trascinata per le lunghe per finire “nel giorno del Giudizio e nella fine del mondo” con costi notevoli per il duca di Modena.

I rappresentanti estensi erano comunque consapevoli che dovendo ricorrere agli strumenti cartografici per comporre la vertenza, mai e poi mai i pontifici avrebbero accettato mappe disegnate senza l’intervento e il placet dei loro periti, né tanto meno avrebbero ammesso come prove le carte contenute nei migliori libri stampati di cosmografia come gli atlanti di Antonio Magini, Abramo Ortelio e Jodocus Hondius. Sorse così, attorno all’impresa cartografica, un lungo e complesso contenzioso dai delicati risvolti politici e diplomatici legati anche al mai sopito sogno estense di recuperare la sovranità su Ferrara. In ballo, oltre allo sfruttamento dei cespiti derivanti dalla pesca nelle valli, c’erano gli usi, feudi e livelli, ossia terreni, case, botteghe di proprietà estense concesse dai duchi a servitori fedeli e sparsi per tutta la Legazione, la cui allodialità per essere dimostrata non aveva affatto bisogno della pianta che ci si accingeva a disegnare[15]. Tra questi beni figurava l’ex bosco Eliceo, la macchia litoranea di lecci tagliata per ordine del cardinale legato di Ferrara all’inizio del Seicento, che essendo confinante con la laguna, sosteneva la Camera Apostolica, rientrava nel novero di quei terreni ad essa adiacenti che i pontifici giudicavano dovessero essere cartografati per maggiore completezza e precisione.

I periti e commissari che formarono la mappa

bosco eliceo
Fig. 5 – Disegno di bosco in riva al mare Adriatico verso Comacchio (ASMo, Mappario Estense, Topografia di Terreni, n. 56). La raffigurazione, databile alla seconda metà del Cinquecento, di pregevolissima fattura e probabilmente da attribuirsi all’Aleotti o a Marco Antonio Pasi, mostra il bosco Eliceo e il litorale sabbioso che separavano il mare dalla Valle dell’Isola nella laguna di Comacchio. La boscaglia è attraversata da una griglia ortogonale di strade che si innesta su due ampi slarghi di forma rettangolare ricavati per facilitare le attività venatorie. Sul lido si vede il disegno della pesca alla tratta con la sciabica.

La pianta che ancora oggi possiamo ammirare è il risultato di rilievi estremamente meticolosi protrattisi per quasi un decennio, un lasso di tempo assai ampio certamente dovuto alla strategia adottata dalla Camera Apostolica di tenere alla larga l’intera vicenda. Nei primi mesi del 1647 la parte pontificia nominò proprio commissario Pompeo Angelotti, coadiuvato dai periti Pietro Azzoni e Luca Danese, saltuariamente affiancati da Carlo Rinaldini. A Modena, il duca Francesco I scelse come commissari Bartolomeo Gatti e Francesco Corte, poi affiancati da Antonio Mariani, affidando il lavoro sul campo a Gaspare Vigarani e Giovanni Fontana Casali.

Vale la pena di soffermarsi brevemente sui profili biografici di questi personaggi. Pompeo Angelotti, nato a Rieti nel 1590 da nobile famiglia, si era addottorato in utroque iure divenendo giureconsulto assai stimato ed entrando a far parte della burocrazia pontificia. Si dilettava anche di poesia e di erudizione storica.

Del ravennate Pietro Azzoni, la cui opera è documentata sino al 1665, si conosce una quarantina di mappe disegnate in veste di perito della Camera Apostolica per le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna. Angelotti, commentando la sua nomina nella vertenza, lo giudicava sagace ed esperto, nonché timorato di Dio, infaticabile e fedelissimo verso la Sede Apostolica, qualità quest’ultima di non poco conto in quel frangente[16]. Agostino Pignatti, uomo di fiducia del duca di Modena a Ravenna, nel comunicare la notizia della scelta dell’Azzoni ne ricordava i trascorsi al servizio degli Estensi agli ordini del marchese Enzo Bentivoglio e lo definiva suo strettissimo amico, dicendosi disponibile – se necessario – ad intercedere presso di lui per il buon servicio della causa ducale, azione non proprio specchiata che gli fu puntualmente richiesta[17].

Luca Danese, insieme a Gaspare Vigarani (1586-1663), è certamente uno dei protagonisti che maggiormente contribuirono a dar lustro alle operazioni e al loro esito cartografico. Anch’egli ravennate, dopo aver conseguito la laurea in utroque iure, si era dedicato agli studi matematici preferendoli all’esercizio della giurisprudenza. La competenza e l’abilità dimostrate in veste di ingegnere idraulico fecero sì che nel 1626 fosse designato come sovrintendente allo scavo del Porto Candiano a Ravenna, divenendo nel contempo governatore di Comacchio. Nel centro lagunare partecipò alla progettazione del canale Pallotta, come dimostra una sua mappa del 1632[18]. Intanto egli si era cimentato anche con la progettazione delle chiese di San Romualdo a Ravenna e Santa Maria della Pietà dei Teatini a Ferrara. Il governo pontificio si avvalse della sua opera di architetto idraulico in numerose occasioni, inviandolo ad effettuare studi e rilievi cartografici lungo il corso del Tevere e dei fiumi del Ferrarese al fine di individuare le sistemazioni necessarie per migliorare l’assetto idraulico di ampie aree minacciate dalle acque in Umbria e nel bacino del Po. Grazie ai suoi studi, ad esempio, nel 1647 si decise di alzare il ponte di porta Sisi a Ravenna dotandolo di arcate più ampie e si stabilì di deviare i fiumi Ronco e Montone che attraversavano la città, tracimando e provocando danni. Proprio l’avvio del cantiere ravennate fu molto probabilmente all’origine di alcune sue assenze dal teatro comacchiese in cui si stava svolgendo la tribolata vicenda della mappa delle valli.

A partire dal 1636 Danese ricoprì l’incarico di sovrintendente alle fabbriche pubbliche e private di Comacchio per volere di papa Urbano VIII. Due anni dopo, nella città lagunare su suo progetto venne edificato il Trepponti, scenografico ponte a due torri situato all’arrivo del canale Pallotta. Negli anni seguenti realizzò altre strutture, lavorando anche alle fortificazioni della città nell’occorrenza della guerra di Castro (1641-44). Nel 1647, anno in cui venne chiamato a collaborare con i periti della Camera Apostolica, fu ordinato sacerdote. Nominato matematico pontificio da Innocenzo X, nel 1652 divenne protonotario apostolico e quattro anni dopo ingegnere della fortezza di Ferrara. Pubblicò opere di argomento idraulico e matematico tra cui spicca il Della scienza meccanica e delle utilità che si traggono da gl’istromenti di quella, testo tratto da un manoscritto di Galileo Galilei che ebbe il coraggio di pubblicare dopo la condanna pronunciata dall’Inquisizione nei confronti dello scienziato toscano[19]. I periti e lo stesso commissario pontificio Pompeo Angelotti più volte si rivolsero a Luca Danese non solo per sottoporgli gli esiti dei rilievi, ma anche per avere informazioni sulla topografia e sulla toponomastica, nonché sui confini e la qualità dell’acque, della laguna comacchiese.

Carlo Rinaldini (1615-1698), matematico e ingegnere militare, originario di Ancona, ben presto si dedicò alla realizzazione di fortificazioni ricevendo da Taddeo Barberini il compito di sovrintendere alle fortezze e opere di difesa di Ferrara, Bondeno e Comacchio. Dal 1667 insegnò matematica e filosofia prima a Pisa, poi a Padova. Matematico alla corte di Firenze e accademico del Cimento, fisico sperimentale di grande valore, fu il primo a fissare nella costruzione del termometro i punti estremi della formazione del ghiaccio e dell’ebollizione dell’acqua[20].

disegno di Comacchio a inchiostro e matita
Fig. 6 a – Disegno scompleto a inchiostro e matita recante sul verso l’annotazione Comacchio del Danese (ASMo, Mappario Estense, Topografie di città, n. 230). Con tutta probabilità si tratta della copia di una raffigurazione della città eseguita dal perito pontificio dopo il 1647, in quanto vi compare il lungo porticale dei Cappuccini ultimato proprio nella primavera di quell’anno. Il disegno originale, che tuttavia tralascia di rappresentare la cinta fortificata alla cui progettazione e realizzazione nel 1643 collaborò Luca Danese, è attualmente conservato presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara (Ms. Calsse I, 763, n. 77). Questa veduta prospettica mostra invece l’andamento dei bastioni e dei terrapieni, ed è molto simile a quella tratta dal Transunto che si può osservare qui a fianco
disegno di Comacchio a inchiostro e matita
Fig. 6 b – Particolare del Transunto della pianta delle Valli di Comacchio raffigurante la città lagunare. Nel disegno sono delineate le fortificazioni, mentre non è raffigurato il porticale dei Cappuccini. La rappresentazione risalirebbe quindi ad un periodo compreso tra il 1643 e il 1646.

I commissari modenesi Bartolomeo Gatti e Francesco Corte erano rispettivamente consultore della Camera Ducale estense dall’ottobre del 1644[21], e soprintendente generale dei beni ducali. Gaspare Vigarani, nativo di Reggio Emilia, va certamente annoverato tra i principali architetti e ingegneri della prima metà del Seicento. La sua prima opera conosciuta data al 1619, anno in cui realizzò con il fratello Giacomo una macchina per la solenne traslazione della Beata Vergine della Ghiara nella città natale. Nel 1631 si trasferì a Modena dove il duca Francesco I lo nominò sovrintendente alle fabbriche ducali e successivamente tesoriere segreto. Nella capitale estense presentò uno dei progetti per la costruzione del Palazzo Ducale, collaborò all’edificazione della fortezza della Cittadella e partecipò alla progettazione e fabbricazione di numerosi edifici tra cui la chiesa di San Giorgio (1647-1655), la Palazzina dei Giardini Pubblici (1617-1656), la villa ducale suburbana delle Pentetorri e il Teatro della Spelta, oggi entrambi scomparsi. Nel 1659 Luigi XIV lo volle presso la sua corte affidandogli la realizzazione di diversi edifici e di un teatro[22]. Di Giovanni Fontana Casali si sa ben poco: egli fu ingegnere, matematico, topografo e cartografo al servizio del duca di Modena.

Dieci anni di rilievi

Nel marzo del 1647 ebbero inizio i sopralluoghi, dopo che per mesi il governo pontificio aveva trattenuto a Roma e a Ferrara il proprio commissario, giustificando il ritardo accumulato con la complessità delle procedure necessarie ad istruire l’affare. Pietro Azzoni, colui che secondo gli ordini impartiti dal cardinale legato di Ferrara Donghi avrebbe dovuto far fedelmente et esattamente la pianta di tutte le Valli di Comacchio insieme ai periti modenesi, comparve sullo scenario dell’intricata vicenda nei primi giorni d’aprile[23]. Ad aspettarlo c’era Angelotti pronto ad impartirgli ulteriori istruzioni su come avrebbe dovuto eseguire i rilievi e il disegno. Il commissario pontificio appena giunto a Comacchio accusò i modenesi di aver esaminato testimoni, effettuato rilievi e avviato il disegno della mappa in sua assenza, violando in tal guisa i patti. Da parte estense, il 19 marzo si rispose che effettivamente Gaspare Vigarani “aveva notato il nome de’ canali, le valli a’ quali davano l’acqua, a che parte tiravano li casoni, et altre circostanze per sua memoria, e forse anche aveva livellato l’acque in alcune parti”, ma queste, osservava Bartolomeo Gatti, erano tutte informazioni indispensabili per abboccarsi a ragion veduta con i periti pontifici[24]. Per la verità, da un’altra missiva indirizzata dal commissario estense al segretario ducale Scipione Sacrati il 18 marzo si apprende che Vigarani e Fontana Casali erano impegnati nel rilevare e tracciare la mappa dell’imboccatura del porto di Magnavacca, punto dalla doppia valenza strategica come porto e “valvola per il funzionamento del sistema idraulico delle valli a garanzia della montata del pesce”[25], mentre Angelotti, anch’egli presente a Comacchio per accompagnare Gatti nella visita alle valli, mal sopportava il barcheggiare per la laguna, onde le escursioni dei commissari stavano procedendo a rilento[26].

Sempre il giorno 18, i commissari del duca di Modena Bartolomeo Gatti e Francesco Corte inviavano al loro sovrano una relazione assai interessante sulla visita che avevano appena compiuto all’interno delle Valli di Comacchio. Secondo i due consiglieri, l’ispezione oculare risultava più favorevole alle tesi estensi di quanto non lo fossero le mappe conosciute, in particolare erano stati osservati alcuni difetti in un disegno del canale e porto di Magnavacca inviato probabilmente dal vescovo di Comacchio, ragion per cui si era provveduto a “cavare una nuova pianta” affidandola a Fontana e Vigarani che l’avrebbero completata di lì a tre giorni, a conferma della fondatezza dei sospetti pontifici e di quanto scritto da Gatti a Scipione Sacrati. Ma c’era dell’altro: al fine di rappresentare al meglio le qualità delle valli, si era deciso di “pigliar separatamente in grande la pianta delle parti più principali, come sariano li dossi, li casoni, le porte, li lavorieri, gli argini, e parti simili”, che per motivi legati alla scala delle rappresentazioni non venivano solitamente cartografati. I disegni ed una relazione dettagliata sulla visita sarebbero stati inviati a Modena al più presto, mentre si restava in attesa delle istruzioni circa “il concordar il modo di far la pianta con la presenza della parte avversa”. La lettera si concludeva segnalando il comportamento pacioso di Angelotti, che sembrava procedere assai lentamente nelle sue visite alle valli condotte a volte in compagnia di Luca Danese[27].

Quattro giorni dopo, il 22 marzo, Gatti inviò una lunghissima comunicazione al duca Francesco I, con la quale delineava quello che a suo parere era lo scenario in cui si sarebbero svolte le levate della pianta. Il consigliere ducale doveva esprimere una valutazione in merito all’eventuale intenzione dei pontifici di iniziare i rilievi sul finire dell’inverno o nelle prime settimane di primavera, periodo in cui le porte (gli sbarramenti) che consentivano l’accesso del mare e la montata del novellame nella laguna erano aperte. Nell’esprimere il parere egli descrisse il sistema di regolazione dell’afflusso delle acque marine. Ogni canale proveniente dall’Adriatico prima di entrare nelle valli incontrava due porte fatte di grisuole, pareti di graticci di canne palustri, con in mezzo un’altra porta. Quando le aperture erano chiuse, le acque dei canali restavano completamente separate da quelle interne dei campi. In prossimità delle porte e nei pressi dei passaggi delle correnti tra campo e campo si trovavano i lavorieri. Dopo l’ingresso del novellame nelle valli, si procedeva alla costruzione di un piccolo argine di terra (cassella) davanti alla bocca dei lavorieri per impedire l’entrata di altra acqua dai canali. In buona sostanza, gli spazi adibiti allo stazionamento e alla cattura della fauna ittica erano in sé conchiusi, isolati dalle acque di valle e di canale. Apparentemente, non era dunque molto conveniente per gli interessi e le tesi sostenute dagli estensi acconsentire alla richiesta di svolgere le levate cartografiche quando le valli erano aperte e l’acqua poteva circolare liberamente in tutto il bacino lagunare, in quanto si sarebbe potuta avvalorare implicitamente la tesi pontificia del corpo unico.

Quanto all’ipotesi di contrastare duramente la volontà della Camera Apostolica di disegnare la pianta, essa non era, secondo Gatti, né conveniente, né opportuna, in quanto i pontifici non erano pronti per una simile impresa, nemmeno per contestare con dati di fatto le argomentazioni presentate dalla parte avversaria. Quand’anche fosse emerso qualche elemento favorevole ai pontifici, esso sarebbe stato agevolmente neutralizzato. Per condurre tecnicamente alla migliore conclusione la partita sarebbe stato tuttavia necessario condizionare il disegno, facendo “mostrar i segni di commercio privato, col far apparire le distinzioni, i confini delle valli, gli artifizi con che si mantengono, e modi si serano fuori e si dividono le acque de canali dall’acque delle valli”[28]. Si trattava di segni perfettamente riconoscibili anche quando le valli erano aperte, ragion per cui se si fosse deciso di procedere in quel periodo il danno non sarebbe stato grave: bastava avere l’accortezza di far rilevare tutti i segni degli sbarramenti, la posizione delle porte, delle bocche e delle caselle, seppure momentaneamente aperte per agevolare la montata del pesce. Procedendo in tal guisa nel rilievo, poca importanza avrebbe avuto la stagione in cui esso si sarebbe svolto. Ma per essere ancora più tutelati, si poteva addirittura chiedere che si facessero due differenti disegni per mostrare lo stato di fatto con le valli chiuse ed aperte.

rosa dei venti
Fig. 7 – La splendida rosa dei venti che decora il Transunto.

Il maggior pregiudizio che gli interessi estensi pativano nella causa in corso non originava tanto dal disegno della pianta, quanto – arguiva a ragione Gatti – dalla lunghezza delle operazioni, e i pontifici avrebbero certamente usato ogni diligenza e astuzia per prolungare all’infinito i lavori. Per tale ragione, l’insistenza sulla scelta della stagione in cui effettuare i rilievi avrebbe potuto fare il gioco della parte avversa, perciò era consigliabile non procrastinare l’avvio delle levate.

I timori di Bartolomeo Gatti si rivelarono fondati. Pompeo Angelotti, più volte descritto dagli agenti estensi alla stregua di un personaggio ambiguo, vano e leggiero, perennemente intento a porre in essere tattiche ostruzionistiche, chiese e ottenne dal cardinale legato Donghi che la delegazione modenese fosse richiamata a Ferrara. Qui venne trattenuta con vari pretesti per mesi, mentre Angelotti dichiarava di doversi recare a Roma per raccogliere notizie e documenti. I delegati estensi sospettavano che queste lunghe missioni del commissario pontificio servissero invece per subornare i testimoni[29].

Commissari e periti del duca di Modena vennero in seguito congedati senza aver potuto concludere alcunché, ottenendo solo l’assicurazione di venire riconvocati a tempo debito. Intanto, Angelotti aveva disegnato una mappa abbastanza dettagliata delle valli, guardandosi bene dall’informare la parte avversa, inviandola a Roma unita ad una dettagliata relazione[30], in cui il commissario pontificio cercava di confutare con prove storiche, documentali, e con l’ausilio della topografia le argomentazioni dei rappresentanti ducali.

Per due interi anni le operazioni topografiche vennero sospese. In questo lasso di tempo gli ambasciatori estensi espressero a più riprese nelle sedi pontificie le rimostranze del loro sovrano nei confronti dell’operato della Camera Apostolica, sino a giungere all’estremo passo della supplica al papa. Gli sforzi diplomatici fecero registrare un momentaneo successo, poiché i rilievi ripresero il 24 settembre 1649. Inizialmente fu raggiunto l’accordo di cominciare le misure dal mulino di Filo seguendo l’argine circondario delle valli a occidente e a settentrione in direzione delle valli del Migliaro e di Massa Fiscaglia, per poi ritornare sui propri passi completando il disegno sul lato interno della laguna.

I periti pontifici continuavano tuttavia ad operare con un’acribia ed una lentezza esasperanti per i modenesi, che più volte si lamentarono, ottenendo la parziale revisione del sistema di misurazione degli angoli tra i punti di riferimento sul terreno allo scopo di rendere più veloci le operazioni. Il 30 settembre, subito dopo aver raggiunto il territorio di Ostellato, tutti dovettero far ritorno a Comacchio in quanto Angelotti doveva recarsi con urgenza a Ferrara per il disbrigo di altri affari. Il commissario pontificio rientrò il 5 ottobre e le operazioni ripresero due giorni dopo. Vigarani, intanto, aveva esaminato i disegni dei territori già visitati stendendone gli spolveri[31]. Alla ripresa dei lavori, Carlo Rinaldini insistette affinché le misurazioni si svolgessero con minuzia ed estrema precisione secondo il tenore delle istruzioni ricevute da Roma.

valli di Ostellato
Fig. 8 – Particolare del Transunto raffigurante uno scorcio delle valli di Ostellato. In alto a sinistra si scorge il Palazzo del Betti che ospitò in più occasioni la comitiva di periti impegnati nelle levate di campagna. Si distinguono chiaramente anche i lavorieri, le tresse, le bocche e le fabbriche o casoni (contraddistinti da una croce)

Il 27 ottobre sia Luca Danese che gli altri membri della delegazione pontificia lasciarono il campo partendo il primo per Ravenna e i secondi alla volta di Ferrara. Alcuni giorni dopo i lavori ricominciarono, ma ben presto il tempo si guastò impedendone il proseguimento. Le attività andavano avanti a sprazzi. A partire dal 22 novembre Gaspare Vigarani, assente Fontana ammalato a Modena, fu impegnato a verificare i primi disegni messi a punto dall’Azzoni. Un memoriale di parte estense del 19 dicembre muoveva una serie di dubbi nei confronti del disegno del perito pontificio. Innanzitutto si poneva in discussione il disegno del canale Verginese, che non era raffigurato in tutto il suo percorso. Le contestazioni riguardavano anche la scelta dei toponimi, in particolare se fosse opportuno o meno accettare senza colpo ferire la toponomastica desunta dalle informazioni dei paesani, e il rifiuto di Angelotti di porre in pianta le chiaviche antiche sul Po di Primaro e sul Po di Volano. I modenesi chiedevano poi che fosse nominato un altro perito pontificio che affiancasse e sostituisse Azzoni nelle operazioni di campagna, giacché il ravennate avrebbe dovuto concentrarsi solo sul disegno della pianta per accorciare i tempi dell’operazione[32].

Il 27 novembre Angelotti e Danese partirono nuovamente alla volta di Ferrara. Durante la loro assenza Bartolomeo Gatti inviò Giovanni Fontana a disegnare la mappa della Sacca di Goro, del territorio di Ariano Polesine e del Po di Venezia, compiendo un vero e proprio atto di “spionaggio cartografico in territorio pontificio”[33] in un’area in cui il taglio di porto Viro, praticato dalla Serenissima per allontanare le torbide del Po dalla laguna veneta dirottandole verso il lido ferrarese di Goro, aveva già trasformando radicalmente il profilo costiero e l’assetto idrografico.

Per farsi un’idea di quale fosse il clima che regnava nella delegazione modenese è sufficiente ricordare il contenuto di una lettera scritta da Gatti al duca di Modena in data 13 novembre 1649. La missiva così descriveva il modus operandi dei periti pontifici e di Luca Danese: “in cinque giorni non si è potuto far la metà dell’argine del Mantello, che in duoi giorni alla più longa senz’altro tutto si può finire”. Ogni sera si rientrava a Comacchio e la mattina la comitiva partiva non certo di buon’ora giungendo tardi sul luogo da rilevare e riuscendo ad operare per sole due o tre ore. Fatto questo che avrebbe potuto essere tollerabile se l’Azzoni non si fosse perso “dietro a così superflue puntualità”, che non si poteva “starvi presente e non perdere la pazienza”. Per assicurare il sito d’un casone, d’un pezzo d’argine isolato, o d’una isoletta (barro), sarebbe stato sufficiente, secondo Gatti, “intersecarla con tre, o quattro punti stabili”, ma l’Azzoni insisteva per triangolare quanti punti si vedevano all’intorno e procedeva disegnando ogni minimo barretto (piccolo dosso), anche quelli che data la scala del disegno non sarebbero stati rappresentati sulla mappa. Gatti concludeva la sua relazione raccomandando un’azione diretta del duca presso la corte romana, dal momento che un simile comportamento poteva essere solo il risultato di precise disposizioni segrete impartite dalla Camera Apostolica[34].

Il passo diplomatico fu effettivamente compiuto e nella supplica che i rappresentanti ducali rivolsero al papa si sottolineava, non senza una evidente vis polemica, come la raffigurazione di dossi o barri si sarebbe dovuta limitare alla loro localizzazione e non alla loro forma e altezza sull’acqua[35]. Nessuno a Modena, a cominciare dal duca Francesco I, nutriva l’intenzione di affrontare di petto la controversia mettendola in forma di negozio litigioso, a maggior ragione sapendo che il pontefice, a cui ci si rivolgeva direttamente per chiedere un pronunciamento, non era pregiudizialmente ostile nei confronti delle richieste avanzate dai modenesi[36]. L’azione politica non sortì tuttavia effetti decisivi.

Fuscaglia - Massa Fiscaglia
Fig. 9 – L’abitato di Fuscaglia (Massa Fiscaglia) circondato dai campi coltivati offre un buon esempio dell’estrema precisione del rilievo e del disegno del Transunto.

Nel frattempo, un memoriale anonimo di parte estense sottolineava come in 86 giorni di permanenza in loco si fosse posta in pianta circa la quindicesima parte di tutto il territorio da raffigurare, avendo lavorato in campagna per soli 40 giorni[37]. In quei mesi Angelotti aveva condotto rilievi solitari nelle valli, comportamento che i modenesi stigmatizzavano, criticando nel contempo le posizioni assunte dal commissario pontificio a proposito di quanto previsto dalle convenzioni faentine in merito ai beni allodiali estensi.

Il 19 dicembre 1649 le operazioni sul terreno subirono una nuova interruzione stabilita di comune accordo in attesa delle nuove direttive impartite da Roma dopo le reiterate proteste dei modenesi. In una lettera del 29 gennaio 1650 inviata da Bartolomeo Gatti al cardinale Rinaldo d’Este, il commissario notava come a Ferrara si promettessero gran cose e si mostrasse “gran desiderio di terminare presto il disegno”. Il cardinale legato assicurava che avrebbe ordinato al commissario pontificio di “far lavorare li suoi periti, e farli essere di buon hora su l’operatione, et anche farli dormire in luogo più vicino al lavoriere che sia possibile”. L’aspirazione a concludere l’affare era condivisa, strano a dirsi, anche dallo stesso Angelotti che in strettissima confidenza aveva espresso a Gatti la convinzione secondo cui se si fosse continuato a disegnare i barri come si era fatto sino ad allora, l’intera opera sarebbe riuscita infinita[38].

Ma anche questa improvvisa volontà di accelerare i tempi appariva sospetta agli occhi dei modenesi, che pensavano fosse legata all’intenzione dei pontifici di condurre le operazioni nei mesi più freddi allo scopo di rendere “molto minore la quantità di acque dolci”[39] che scorrevano nelle valli, al fine di dimostrare che gli apporti del flusso marino erano determinanti per la sopravvivenza del sistema lagunare.

I periti e il commissario pontificio risposero alle osservazioni e alle accuse dei rappresentanti estensi indirizzando una missiva alla Congregazione cardinalizia incaricata di seguire l’affare. Nella lettera, datata 15 marzo 1650, si sottolineava come il ridurre in pianta le valli fosse cosa sostanziale e necessaria per dimostrare le ragioni della Camera Apostolica. La natura del negozio imponeva poi un’estrema precisione e rigore topografico. Commissario e periti di parte pontificia, proseguiva la lettera, non stavano trastullandosi tra le delizie, ma al contrario mettevano quotidianamente a repentaglio la loro salute tra le gelide acque, come ben sapevano anche i ministri estensi[40]. A questi ultimi, del resto, era concessa la libertà di porre in pianta qualsiasi elemento topografico che servisse per sostenere le proprie argomentazioni, ragion per cui anche gli incaricati della Camera Apostolica dovevano godere del medesimo diritto.

La Congregazione cardinalizia, tuttavia, aderì alla richiesta di portare a termine il negozio entro tempi ragionevoli. Sulla scorta di tale pronunciamento fu presentato un memoriale che elencava quali informazioni topografiche si sarebbero dovute raccogliere nel corso dei rilievi al fine di velocizzarli. Periti e commissari avrebbero dovuto appurare ed esaminare accuratamente il canale e porto di Magnavacca, l’esistenza e forma degli argini e dei canali che scorrevano tra le valli, delle porte (chiuse) con cui si regolava l’immissione delle acque, nonché individuare i proprietari dei campi vallivi. Si sarebbe dovuto appurare, inoltre, l’eventuale esistenza di un’altra bocca – oltre a quelle di Magnavacca e Bellocchio – da cui l’acqua del mare aveva accesso alla laguna, il numero dei casoni da pesca e la presenza di valli con acqua dolce. Tutte le altre questioni controverse, invece, si dovevano dirimere facendo riferimento ai documenti processuali o agli strumenti notarili[41].

Ancora una volta pareva che si fosse finalmente stabilito un punto fermo da cui partire per avviare a conclusione i lavori, ma da Roma furono impartite ulteriori disposizioni per levare in pianta le cose così naturalmente come stavano: una simile indicazione teoricamente poteva anche comportare il rilievo della grossezza, lunghezza e quantità delle canne e delle erbe palustri… Vista la genericità delle direttive, dunque, pareva impossibile finire la pianta in meno di dieci anni, un lasso di tempo in cui sarebbe potuto accadere di tutto protraendo i lavori all’infinito[42].

risaie e paludi nel territorio di Argenta
Fig. 10 – Particolare del Transunto in cui sono delineate con grande precisione le aree paludose e le risaie presenti all’epoca nel territorio di Argenta.

Lo stillicidio di rinvii pretestuosi, lungaggini ed eccessive minuzie topografiche, periodi di assenza dei periti e del commissario pontificio proseguì immutato negli anni successivi. Nel giugno del 1652, il consultore ducale Antonio Mariani ragguagliava Francesco I sull’ennesimo rallentamento dei lavori provocato dal rifiuto di Azzoni di procedere ai sopralluoghi in assenza del commissario Angelotti, che certamente avrebbe raggiunto Comacchio negli ultimi giorni del mese. Tale atteggiamento, che contraddiceva palesemente la volontà del pontefice di accelerare i tempi, avrebbe finito per limitare a pochi giorni lo svolgimento dei lavori di campagna, visto che questi si sarebbero dovuti sospendere con l’arrivo del gran caldo. Ma il 12 luglio successivo l’incaricato estense comunicava che a dispetto di tutte le diligenze e sollecitazioni usate non era stato possibile indurre i pontifici “a sorta alcuna d’operatione”, nonostante fosse giunto a Comacchio Luca Danese, del resto immediatamente richiamato a Rimini dalla Camera Apostolica[43].

Nel settembre successivo la situazione di stallo parve sbloccarsi. Giovanni Fontana Casali, infatti, informava il duca di Modena come in pochi giorni si fosse svolto un lavoro pari a quello che nel passato aveva richiesto un intero mese di tempo, e questo grazie al mutato atteggiamento di Azzoni convintosi ad abbandonare il “suo solito rigore circa il modo di operare”. C’era solo da sperare, osservava Fontana, che le piogge non interrompessero le operazioni e forse si sarebbero ravvivate le speranze di vederne il fine[44]. Il clima non fu inclemente e l’attività per mettere in pianta le valli procedette con una rapidità inusitata, anche se, osservava Antonio Mariani, non con il calore dei primi tempi[45]. All’inizio di novembre si era completata la levata di tutto il corso del “Po vecchio di Primaro, con anche la riviera del nuovo da Sant’Alberto sino all’hosteria di Primaro, che saranno da otto miglia di longhezza l’uno ed anche l’altro”[46] e ci si stava dirigendo verso il lungo cordone litoraneo che chiudeva le valli a oriente, ma questa situazione, così gradita ai modenesi, ebbe breve durata. Il 7 novembre i lavori si arrestarono nuovamente: per Mariani la causa di questi nuovi disordini andava ricercata nel comportamento di Angelotti. Azzoni nel frattempo si era assentato per diversi giorni dandosi malato al suo rientro, mentre Luca Danese partì per Ferrara[47]. Quest’ultima notizia dimostra come il grande architetto e ingegnere partecipò assai regolarmente (per quanto l’avverbio mal si attagli a tutta la vicenda) alle levate topografiche.

Nel febbraio del 1653 tutto era ancora fermo: i rappresentanti pontifici continuavano ad asserire di voler por termine al più presto alla faccenda, accusando i periti modenesi di ostacolare questi buoni intenti. Intanto, sollecitati dal commissario modenese, si rifiutavano di riprendere le operazioni sul terreno adducendo come giustificazione quella di essere molto impegnati nella stesura del disegno della pianta, lavoro che, osservava il commissario Mariani, avrebbero potuto benissimo svolgere nel mese di gennaio. Giovanni Fontana Casali in una lettera al segretario Bernardi rigettava le accuse mosse ai tecnici estensi, palesando tutta la stanchezza e amarezza accumulate in “quattro anni continui di tanto travaglio di corpo e agitatione di mente”. Il perito chiedeva di essere sostituito dal fratello Gabriele, essendo sopraggiunti anche diversi malanni a far sì che la situazione si fosse trasformata in un’autentica valle di miserie[48]. Nel tracciare un bilancio di quanto si era fatto sino a quel momento e di ciò che rimaneva da fare, Fontana traeva la lucida conclusione secondo cui per ultimare il lavoro sarebbero stati necessari altri anni.

La sua Notta delle valli che restano da porre in pianta et delle operationi che si sono fatte dalli 19 settembre 1652 sino a dì 10 febraio 1653, allegata alla lettera a Bernardi, offre un quadro completo e assai interessante su tutta la vicenda. Restavano da porre in pianta ben ventuno valli, che avrebbero portato via “assaissime giornate di opere, et in particolare [le valli di] Trebba e Ponti, et sebene le altre sono valli pigole sono molto impedite da barri et campaccie [in] numero infinito”. C’erano poi sette valli il cui disegno in pianta avrebbe dovuto essere ultimato; tra queste quelle di Ossarola, Guardone e Bairolo avrebbero consumato assai giornate. Si doveva inoltre levare la riviera del Po di Volano da Marozzo sino al mare, operazione che si presentava “molto laboriosa” in particolare nella zona di Vaccolino.

laguna comacchiese
Fig. 11 – Particolare del Transunto raffigurante il bordo litoraneo della laguna comacchiese.

I periti pontifici avevano anche manifestato l’intenzione di mettere in pianta anche gli alvei del Po abbandonati dalle acque dopo il taglio di Porto Viro. Quanto poi alle levate del litorale, il perito modenese sottolineava che sarebbero stati necessari anni di lavoro, siccome quella zona era “piena d’infinità di vallette di acque stagnanti, di terreni lavorativi, di canali, rigagnoli, scanni”, soprattutto se si fossero mantenute le modalità tecniche sino ad allora impiegate (e questa era l’idea già palesata da Azzoni). A tutto ciò si aggiungevano i continui temporeggiamenti dei pontifici che provocarono lo slittamento della ripresa dei lavori al 26 aprile 1653[49]. Dopo la pausa estiva, seguita a tre mesi di levate, si riprese a faticare il 4 ottobre, quando il commissario estense chiese al duca di inviare il secondo perito per maggior sicurezza (qualora Fontana avesse accusato altri malanni), e per spingere i pontifici ad accettare l’idea di far lavorare in contemporanea tutti e quattro i tecnici. Inutile dire che l’idea non fu accolta, anzi il commissario pontificio destinò momentaneamente Danese ad altri incarichi[50].

legenda con scala del Transunto
Fig. 12 – La legenda recante l’indicazione della scala del Transunto espressa in canne romane, passi geometrici e pertiche ferraresi.

Pur non avendo ancora rinvenuto riscontri documentali al riguardo, è molto probabile che le levate siano proseguite seguendo le stesse modalità e scansioni temporali anche per tutto il 1654. L’anno successivo esse ripresero il 23 gennaio, trascinandosi tra le solite interruzioni sino al 18 luglio[51]. Non restava molto terreno da rilevare per dar compimento all’impresa, ma l’intenzione della Camera Apostolica era ormai chiara: le operazioni avrebbero dovuto continuare in qualche modo sino alla fine dell’anno, e così fu. Nel gennaio del 1656 la pianta era finalmente terminata[52] e il 10 febbraio Mariani comunicava al duca di Modena il trasporto dei disegni a Ferrara, dove nel giro di pochi giorni avrebbero dovuto essere riscontrati tra le parti alla presenza del cardinale legato[53]. Ultimata tale operazione restava da trasporre in bella i disegni ricavandone le mappe, che poi sarebbero state autenticate.

Ancora una volta toccò ad Antonio Mariani dover riferire al duca Francesco I le nuove peripezie a cui andò soggetta la travagliata vicenda. Nel giugno del 1656 Fontana aveva completato la versione modenese della pianta (essa recava l’arma estense), dopo aver risposto ad una serie di osservazioni sul disegno mosse da Alessandro Bernardi che vi aveva scorto diverse incongruenze e lacune[54]. Ma all’atto dell’autenticazione presso il notaio Ghini, trovandosi da parte di Pietro Azzoni delle discrepanze con il suo originale “ne colori, nelle distanze e gradationi”[55], egli si rifiutò di sottoscrivere l’atto, sebbene secondo Mariani non si trattasse di differenze sostanziali. La questione fu sottoposta al giudizio delle autorità pontificie che si espressero nell’ottobre successivo con notevole ritardo a causa della premura per il contagio pestilenziale che minacciava Roma, rimettendo ogni decisione al legato di Ferrara. Nel gennaio del 1657 la pianta fu nuovamente esaminata con ogni diligenza dalle parti alla presenza di Luca Danese come perito pontificio deputato dall’Azzoni che si era dovuto assentare per dirigere lavori urgenti sul fiume Lamone.

All’inizio di febbraio, quest’ultimo si palesò mostrando un ordine della Camera Apostolica con cui, per appianare le differenze insorte, si disponeva di realizzare altri “duoi disegni simili a spese della Reverenda Camera” con l’assistenza del perito estense. Una volta finiti, i due elaborati avrebbero dovuto essere autenticati e consegnati alle parti. La delegazione modenese, sentito al riguardo anche il cardinale Rinaldo, accettò a denti stretti la decisione pontificia che finiva per procrastinare per l’ennesima volta la risoluzione del negozio.

Ad Azzoni fu concesso tutto il periodo della Quaresima per delineare i disegni che avrebbero dovuto essere riscontrati a Ferrara per appurare che fossero “in regola et aggiustati con le operazioni di campagna”. Una volta ottenuto il placet delle parti si sarebbe proceduto alla coloritura ed autenticazione delle piante. Ma il 5 giugno 1657, giorno della stipula dell’atto, altre amare sorprese attendevano i delegati estensi. Innanzitutto il notaio Ghini, in assenza di un ordine preciso da Roma o del cardinale Giovanni Battista Spada legato di Ferrara, si rifiutava di consegnare ai modenesi gli atti relativi alla vertenza e lo stesso transunto, nonché di accettare una protestazione contro le piante disegnate dall’Azzoni presentata dai rappresentanti ducali. Il legato, presente alla stipula dell’atto, giudicò legittime le richieste dei modenesi, che ebbero così modo di protestare un particolare di non poco conto contenuto nelle piante che avrebbero dovuto sottoscrivere.

autentica notarile del Transunto
Fig. 13 – Il cartiglio recante l’autentica notarile del Transunto.

Nelle piante, infatti, era presente una tavola sinottica dei proprietari che elencava ben 24 valli nella colonna recante il titolo Valli della Reverenda Camera Apostolica. I rappresentanti estensi non potevano ammettere una simile dicitura in quanto non concordata, e soprattutto in odore di essere stata apposta con l’intenzione di acquistare surrettiziamente qualche ragione ancor prima che venisse pronunciata la sentenza sulla causa in atto. Da parte modenese si negava anche il consenso all’autenticazione delle denominationi (toponimi) riportate nei disegni in quanto non convenute di comune accordo[56]. Tali rimostranze, tuttavia, vennero giudicate inaccettabili dal cardinale Spada. Le scritture autenticate relative alla faccenda della pianta di Comacchio e alle protestationi estensi giunsero a Modena nel 1658 alla fine di marzo[57], con tutta probabilità insieme al Transunto. Quest’ultimo recava l’attestazione notarile di Carlo Ghini, accettata dalla parte modenese relativamente al disegno, ma ricusata per quanto concerneva la toponomastica e il contenuto della tavola dei proprietari delle valli. L’originale conservato in Vaticano, stando alla descrizione di Roberto Almagià, è identico al Transunto, eccezion fatta per la data dell’atto di autenticazione (22 maggio 1658)[58], evidenza che potrebbe far ipotizzare uno strascico di polemiche e ricorsi generato dalle obiezioni modenesi.

Le diatribe proseguirono certamente oltre la data di autenticazione della pianta con la polemica sollevata dai rappresentanti estensi nei confronti della carta a piccola scala derivata dall’originale fatta dare alle stampe nel 1658 da Angelotti, con tutta probabilità proprio a Roma. Daniel Widman, incisore del disegno, era stato infatti assunto nel febbraio 1652 da Giovanni Domenico De Rossi, titolare della famosa stamperia romana. La mappa, che ebbe una vasta diffusione, corredava la relazione che il commissario pontificio sottopose a papa Alessandro VII. Giovanni Fontana Casali passò al vaglio la raffigurazione, furbescamente priva dell’indicazione del rapporto di scala, rilevando come essa travisasse e distorcesse le informazioni contenute nel documento originale[59].

pianta di Comacchio - Pompeo Angelotti
Fig. 14 – La pianta delle Valli di Comacchio a scala ridotta nella edizione di Pompeo Angelotti (ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537).

Chi osservava la pianta a stampa si trovava di fronte ad una palese alterazione delle distanze e perciò delle proporzioni, che aumentava la superficie delle Valli di Comacchio in rapporto a quella del Polesine di San Giorgio, operazione grafica assai efficace con cui si dilatavano gli spazi occupati dalle acque per far apparire la laguna come un corpo unico, tesi assai cara ai pontifici, in cui poco appariva il fitto reticolo di campi, lavorieri, dossi e tresse. L’incisione esagerava, a detta di Fontana, gli effetti di interrimento provocati dal taglio di Porto Viro. Tale risultato grafico era stato ottenuto orientando l’ultimo tratto del corso del Po di Venezia verso nord-est piuttosto che in direzione sud-est verso la Mesola. Sempre col medesimo intento, il disegno ampliava di molto il vecchio alveo del Po delle Fornaci intestato dai veneziani “per havere più libero il scolo et del Polesine di Rovigo, et del territorio di Adria”[60]. In realtà il fenomeno era stato davvero rapido ed esteso: nel giro di pochi anni la sacca di Goro si era colmata di detriti, rendendo inutilizzabile il porto situato alla foce del Po e privando il territorio della legazione di Ferrara di un importante scalo e di cospicui cespiti.

Riducendo la scala del disegno originale, Angelotti aveva inteso presentare un quadro complessivo della situazione idraulica e morfologica di una regione ben più vasta rispetto a quella disegnata nella pianta, con lo scopo preciso di sostenere le tesi pontificie anche nel contesto della contrapposizione con le ambizioni espansioniste di Venezia che intendeva estendere il suo dominio sulle nuove alluvioni create dal Po e sulle marine dell’Adriatico settentrionale, e tutto ciò a costo di travisare quanto riportato nel documento originale. Il commissario pontificio, ad esempio, fece disegnare dei protendimenti della linea di costa in prossimità delle bocche del Po di Volano e del Po di Primaro, tratteggiandoli con una puntinatura, ma tralasciando di spiegare, essendo la mappa a stampa priva di qualsiasi legenda, come in realtà il Transunto indicasse tali aree con la dicitura continente corroso dal mare, ovvero depositi alluvionali spazzati via dall’avanzata delle acque marine. L’equivoco grafico ha tratto in inganno molti cartografi del Seicento, finendo per influenzare anche gli studi sull’evoluzione storica di questo tratto del litorale adriatico.

Quali effetti sortì la conclusione della travagliata vicenda della pianta delle Valli di Comacchio sull’interminabile causa tra la Camera Apostolica e la Camera Ducale estense? Una nota anonima datata 14 ottobre 1658 e indirizzata al segretario ducale Alessandro Bernardi, esprime chiaramente l’intenzione del nuovo duca di Modena Alfonso IV, succeduto al padre Francesco I deceduto proprio in quel giorno, di giungere ad una transazione che comportasse il riconoscimento esplicito dei diritti estensi sulle valli mediante il pagamento, da parte pontificia, di una congrua cifra per entrare in possesso a pieno titolo di quei territori e delle loro rendite[61]. Nella nota si faceva esplicito riferimento ad una sentenza e si autorizzava Bernardi a trattare con i pontifici l’ammontare della transazione e le forme di pagamento. È quindi molto probabile che una volta terminati i lavori topografici si fosse giunti ad un pronunciamento che diede poi la stura ad una lunga trattativa sui particolari economici della concordia tra le parti che sarebbe stata infine stipulata a Pisa il 20 maggio 1664, grazie anche alla mediazione francese. In seguito l’accordo non fu ratificato dagli Estensi e la vertenza su Comacchio finì per trasformarsi in un episodio dalla notevole valenza politica inserito nel più ampio contesto della lotta tra le potenze europee per l’egemonia sull’Italia scatenatasi nei primi anni del Settecento in occasione della successione spagnola[62].

legenda dei toponimi
Fig. 15 – La legenda del Transunto in cui sono segnalati i toponimi delle valli di proprietà della Camera Apostolica, della Comunità di Comacchio, le Valli di Ostellato e quelle appartenenti a privati. Il testo in corrispondenza della stella spiega la dinamica storica del litorale in relazione all’erosione marina dei protendimenti della costa nei pressi delle bocche del Po di Volano e di Primaro. Viene inoltre riportato il significato dei simboli e delle coloriture che identificavano le varie strutture dedicate alla pesca nelle valli comacchiesi.

Qualunque fosse la motivazione della cura riposta nel rilievo e nel disegno della pianta, oggi quell’acribia consente di ammirare un quadro ambientale estremamente dettagliato delle Valli di Comacchio così come si presentava alla metà del XVII secolo, completo di preziose indicazioni diacroniche sull’evoluzione morfologica del litorale. Nella legenda della pianta, infatti, l’indicazione dei nomi delle valli suddivise per categoria di proprietari è accompagnata dall’esplicazione di simboli apposti sul disegno in corrispondenza delle foci del Po di Volano e di Primaro, per evidenziare, come ricordato poc’anzi, quanto la corrente del mare avesse eroso la costa sabbiosa sino a far scomparire la Torre Gregoriana, costruita dopo il 1572 all’epoca del pontificato di Gregorio XIII.

Con grande minuzia sia topografica che toponomastica la mappa mette in risalto non solo la fitta rete di strutture e edifici dedicati alla pesca, ma soprattutto tutti quegli elementi che consentono di seguire la complessa osmosi idraulica tra il mare e le valli e tra quest’ultime e i fiumi circostanti. Sono raffigurati, tra l’altro, con un rapporto di scala diverso da quello impiegato nel disegno: i lavorieri (evidenziati con linee argentate), dispositivi per la cattura delle anguille e dei pesci costruiti secondo regole che si tramandavano di generazione in generazione, posti ad una certa distanza l’uno dall’altro, formati da recinti intercomunicanti per consentire la cattura selettiva del pesce, e costituiti da pali di castagno che sorreggevano due pareti di graticci (grisole) collocate a diedro e infisse nel fondale. La materia prima con cui si fabbricavano le grisole erano le canne palustri provenienti dalle valli di acqua dolce, e gli artigiani che le producevano (grisolini) ponevano molta attenzione ad ottenere la tenuta e l’impenetrabilità delle pareti del manufatto[63]. Anche le tresse, ovvero sbarramenti collocati a monte dei lavorieri, erano evidenziate mediante linee argentate; le bocche attraverso cui avveniva il transito e la cattura del pesce e le casselle erano contraddistinte da linee dorate. Altrettanto dettagliata è la delineazione topografica delle fabbriche (identificate con una croce), delle saline, delle zone acquitrinose occupate dalla vegetazione palustre, dei terreni leggermente elevati e perciò liberi dalle acque (dossi), delle grandi dune sabbiose sul litorale (gli albaioni), e persino dei diversi tipi di imbarcazioni che solcavano le acque interne della laguna e quelle del mare Adriatico.

canale Pallotta e centro di Comacchio
Fig. 16 – Particolare del Transunto che mostra il canale Pallotta, i lavorieri e le tresse, oltre al caratteristico centro di Comacchio circondato dalle acque. Sulla destra si intravedono le dune sabbiose del litorale (gli albaioni).

Un’attenzione speciale è poi dedicata alla precisa rappresentazione della rete di argini, canali, fosse, tagli e chiaviche che permetteva di controllare l’afflusso delle acque marine e del novellame nelle aree depresse da sommergere. In particolare, la pianta mostra il disegno di ciò che restava dell’argine del Mantello, che in origine difendeva la valle del Mezzano dalle intrusioni delle acque marine. L’opera, realizzata nei primi anni del Cinquecento, intendeva sanare il conflitto tra i gestori delle valli da pesca e i proprietari delle terre di bonifica polesane. I primi erano interessati a far sì che le acque marine circolassero in tutte le valli e le anguille non fuggissero dai campi seguendo i flussi d’acqua dolce, i secondi, al contrario, vedevano l’intrusione del mare come una minaccia esiziale per le loro terre coltivate. Altrettanto ben delineato è l’argine Circondario, infrastruttura che riparava le valli dall’ingresso del mare.

Il Transunto offre dunque un saggio straordinario di precisione e dettaglio, ma proprio le intricate vicende che accompagnarono la sua realizzazione dimostrano che sarebbe un errore considerarlo un esatto sostituto della realtà delle Valli di Comacchio alla metà del secolo XVII. I periti, infatti, avevano guidato il loro sguardo là dove volevano i grandi interessi politici ed economici che si stavano affrontando.

Note

[1] Le complesse vicende del Transunto sono state tratteggiate in un primo studio dell’autore presentato al convegno Lo spazio costiero italiano. Problemi di crescita, sensibilità ambientale (Firenze, dicembre 1993), pubblicato con il titolo “Dinamiche dell’ambiente costiero e modalità interpretative della cartografia storica”, Memorie Geografiche, n.s., I (1995), pp. 139-149. Per una disamina estremamente puntuale e documentata dell’argomento si rimanda inoltre a M. Rossi, “L’immagine delle Valli di Comacchio: la cartografia tra tecnica e politica”, in Storia di Comacchio nell’età moderna, Casalecchio di Reno 1993-1995, vol. II, pp. 171-271. Il saggio è corredato da un interessante Inventario cronologico della cartografia relativa alle Valli e alla città di Comacchio.

[2] F. Cazzola, “L’acqua come ambiente e come problema. Le Valli di Comacchio e il Delta del Po nell’età moderna”, in Storia di Comacchio nell’età moderna, Casalecchio di Reno 1993-1995, vol. II, pp. 151-170, p. 153.

[3] A. Toniolo, “Forze produttive ed attività economiche negli ultimi decenni del dominio estense”, in Storia di Comacchio nell’età moderna, Casalecchio di Reno 1993-1995, vol. II, pp. 301-355, p. 309.

[4] Cfr. ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 1: lettera di Francesco Corte, soprintendente generale ai beni ducali, al cardinale Rinaldo d’Este (1646 settembre 5, Ferrara).

[5] Niccolò Cabeo entrò come novizio nella Compagnia di Gesù nel 1602, ed ebbe come maestro di matematica Giuseppe Biancani, che lo introdusse alle esperienze di fisica e alle speculazioni scientifiche. Negli anni Venti, dopo aver abbandonato l’insegnamento, entrò al servizio degli Estensi e dei Gonzaga. Con Francesco I d’Este egli condusse diversi esperimenti, cercando di realizzare progetti di nuove armi fortemente voluti dal duca di Modena. Fu sovente impiegato come esperto in problemi idraulici, occupandosi anche della sistemazione idraulica del territorio ferrarese. Nel 1646 diede alle stampe a Roma i quattro tomi del commento alle Meteore di Aristotele, sua opera principale in cui espresse tutti i temi della polemica antiaristotelica accompagnati da una posizione fortemente antigalileiana (Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1960-, ad vocem).

[6] ASMo, Cancelleria Ducale, Carteggio dei referendari, b. 49 b: lettera di Bartolomeo Gatti al cardinale Rinaldo d’Este (1646 dicembre 29, Modena).

[7] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 1.

[8] Il canale prendeva il nome dal cardinale legato di Ferrara Giovanni Battista Pallotta (1594-1668) che ne volle l’escavazione in quanto convinto sostenitore, nei primi anni Trenta del Seicento, del progetto di valorizzazione urbana di Comacchio e riqualificazione del porto, allo scopo di dotare il territorio ferrarese di uno scalo marittimo importante in Adriatico. Della costruzione di questa infrastruttura, caldeggiata anche dall’Aleotti, si iniziò a parlare nel 1626, ma i lavori ebbero inizio nel 1632 (cfr. F. Ceccarelli, “Antiquissima civitas resurgens: strategie urbane e politiche legatizie a Comacchio nella prima metà del Seicento”, in Storia di Comacchio nell’età moderna, Casalecchio di Reno 1993-1995, vol. I, pp. 343-377, p. 353).

[9] La posizione della Camera Ducale estense è chiaramente esposta da Francesco Corte in dodici punti di una relazione datata 5 settembre 1646, che sintetizza quanto dichiarato nelle fedi autenticate (ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 1).

[10] Per un’analisi critica puntuale della carta delle Valli di Comacchio di Aleotti e più in generale per un quadro della sua figura di scienziato delle acque e cartografo, si rimanda al saggio di Rossi già citato alla nota 1 (pp. 174-179).

[11] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 1.

[12] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 4: Copia del discorso fra N et H (1647 marzo 22, s.l.).

[13] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 2.

[14] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 2: Copia del discorso fra N et H (1647 marzo 22, s.l.).

[15] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: memoriale degli agenti del duca di Modena ai cardinali Spada, Capponi e Panciroli (1647 gennaio 30, Roma).

[16] Cfr. M. Rossi, op. cit., pp. 197-198.

[17] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettere di Agostino Pignatti al duca di Modena (1647 aprile 3-14-21, Ravenna).

[18] F. Ceccarelli, op. cit., p. 355.

[19]Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-, ad vocem.

[20]World Biographical Information System Online, München, K.G. Saur, ad vocem.

[21] ASMo, Cancelleria Ducale, Carteggio dei referendari, b. 49 b.

[22] G. Silingardi, A. Barbieri, Enciclopedia Modenese, Modena, 1990-1998, ad vocem.

[23] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Agostino Pignatti al duca di Modena (1647 aprile 14, Ravenna).

[24] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 4 (1647 marzo 29, Ferrara).

[25] F. Ceccarelli, op. cit., p. 346.

[26] ASMo, Cancelleria Ducale, Carteggio dei referendari, b. 49 b: lettera di Bartolomeo Gatti a Scipione Sacrati (1647 marzo 18, Comacchio).

[27] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Bartolomeo Gatti e Francesco Corte al duca di Modena (1647 marzo 18, Comacchio).

[28] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Bartolomeo Gatti al duca di Modena (1647 marzo 22, Comacchio).

[29] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 2: Circa la pianta delle Valli di Comacchio (1647 maggio 11).

[30] Cfr. M. Rossi, op. cit., p. 189.

[31] Lo spolvero è una tecnica che consiste nel trasferire da un cartone ad un’altra superficie un disegno il cui contorno è stato bucherellato per far passare attraverso i fori polvere di carbone o nerofumo.

[32] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 5: Memoriale di ciò che si deve rappresentare a Sua Altezza per servigio della Pianta delle Valli di Comacchio, con alcune osservazioni cavate da discorsi col commissario Angelotti (1649 dicembre 19).

[33] M. Rossi, op. cit., p. 191.

[34] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 4 (1649 novembre 13, Comacchio).

[35] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 2: copia di supplica degli agenti estensi al papa (1650 gennaio 20, s.l.).

[36] ASMo, Cancelleria Ducale, Carteggio dei referendari, b. 49 a: lettera di Alessandro Bernardi, consigliere e segretario del duca di Modena, a Francesco Gualenghi, segretario estense, incaricato d’affari presso la corte pontificia (1650 gennaio 15, Modena).

[37] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 7: Minuta d’informazione sopra la pianta delle valli di Comacchio d’anonimo (1650).

[38] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 4: lettera di Bartolomeo Gatti al cardinale Rinaldo d’Este (1650 gennaio 29, Ferrara).

[39] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 550.

[40] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 6.

[41] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 6.

[42] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 7: Minuta d’informazione sopra la pianta delle valli di Comacchio d’anonimo (1650).

[43] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettere di Antonio Mariani al duca di Modena (1652 giugno 20, Comacchio; 1652 luglio 12, Comacchio).

[44] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Giovanni Fontana Casali al duca di Modena (1652 ottobre 20, Comacchio).

[45] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1652 settembre 29, Comacchio).

[46] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1652 novembre 3, Comacchio).

[47] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1652 novembre 7, Comacchio).

[48] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Giovanni Fontana Casali ad Alessandro Bernardi (1653 febbraio 19, Comacchio). Nel luglio successivo Fontana si trovava nuovamente all’opera nelle Valli di Comacchio; cfr. ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1653 luglio 24, Comacchio).

[49] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1653 aprile 29, Comacchio).

[50] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1653 novembre 4, Comacchio).

[51] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettere di Antonio Mariani al duca di Modena (1655 gennaio 23, Comacchio; 1655 marzo 12, Comacchio; 1655 aprile 16, Comacchio; 1655 aprile 30, Comacchio; 1655 luglio 18, Comacchio).

[52] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 2: lettera del segretario ducale Francesco Gualenghi al duca di Modena (1656 gennaio 3, Roma).

[53] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1657 febbraio 10, Ferrara).

[54] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 6: Quesiti del segretario Bernardi intorno la pianta delle Valli di Comacchio con la risposta a medesimi (1657-1658).

[55] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera di Antonio Mariani al duca di Modena (1657 marzo 11, Modena).

[56] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: Pro Serenissimo Mutine versus Reverenda Camera Apostolica (1657 giugno 5, Ferrara).

[57] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 549: lettera dell’incaricato d’affari estense Ludovico Cernelli al principe Alfonso d’Este (1658 marzo 27, Ferrara).

[58] R. Almagià, Documenti cartografici dello Stato pontificio editi dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1960, p. 32.

[59] Per un’accurata esposizione delle critiche mosse da Fontana alla carta a stampa di Angelotti si rimanda a M. Rossi, op. cit., pp. 196-197.

[60] ASMo, Casa e Stato, Controversie di Stato, b. 537, filza O, cassa XII, n. 7: Giovanni Fontana Casali, Alterationi avvertite nella pianta delle Valli di Comacchio rappresentata in piccolo per ordine del commissario Angiolotti et conferita con la pianta autentica (s.d., s.l.).

[61] ASMo, Cancelleria Ducale, Carteggio dei referendari, b. 49 a: istruzione anonima indirizzata al segretario ducale Alessandro Bernardi (1658 ottobre 14, s.l.).

[62] M. Rossi, op. cit., pp. 199-200.

[63] A. Toniolo, op. cit., p. 309.