FRANCESCO CECCARELLI
Con il termine “delizia” la storiografia artistica ha indicato diverse manifestazioni dell’abitare principesco e cortigiano, variamente caratterizzate dal continuo intreccio tra natura ed artificio. Si tratta di palazzi, ville e padiglioni, di “broli”, “zardini” e “barchi” che la tradizione cronachistica e letteraria, a partire dal tardo Cinquecento, riconduce prevalentemente a luoghi di piacere e di svago, celebrati per le loro qualità ambientali e architettoniche, specchio del potere e teatro di magnificenza della familia principis1.
Concepite come residenze suburbane o decisamente extraurbane attrezzate per soddisfare le esigenze di una corte itinerante sul modello franco borgognone, nel mondo estense le “delizie” rispondevano a svariati compiti di carattere economico, politico e strategico, oltre che di rappresentanza, svolgendo in primo luogo funzioni di centro di coordinamento di un territorio altamente instabile da tenere costantemente sotto controllo, sia per difenderlo dalla continua minaccia delle acque, sia per organizzarlo razionalmente e garantirne di conseguenza la produttività. Tra Medioevo ed età moderna, larga parte della pianura ferrarese era infatti coperta da distese acquitrinose che solo nel corso del XVI secolo cominciarono ad essere progressivamente bonificate in modo non settoriale e lo sfruttamento del territorio venne affidato a ville e “castalderie”, dove si provvedeva ad amministrare beni agricoli su vasta scala o a tutelare ampi spazi venatori2.
Fra Quattrocento e Cinquecento gli Este promossero l’insediamento di numerose tenute agricole di questo genere nelle vicinanze di Ferrara e soprattutto nella bassa pianura orientale della val di Po, favorendo talora la costruzione di palazzi e giardini di largo impianto e originale concezione architettonica grazie all’investimento di ingenti risorse finanziarie e attraverso il coinvolgimento dei principali artisti a loro disposizione. Gran parte di queste “castalderie” erano raggiungibili dalla capitale attraverso il fitto reticolo di vie d’acqua fra di loro comunicanti che innervava il bacino del basso Po, dove si muovevano flotte di imbarcazioni fluviali di stazza e qualità differente, dai più modesti sandali e scarane ai filanti burchielli, fino al sontuoso bucintoro del principe. Alcune di queste residenze si attestavano direttamente sulle rive del Po Grande, come Melara, Ficarolo o Corbola, altre lungo le ramificazioni secondarie dei bracci del Delta, come Medelana o Monisteruolo, altre ancora su corsi d’acqua di minore portata, come Consandolo e, da una certa epoca in poi, Belriguardo; alcune infine anche nei pressi della costa, come Comacchio e Mesola.
Fin dalla seconda metà del XIV secolo gli Este frequentano alcune di queste tenute, in cui vengono edificate delle residenze dominicali, forse inizialmente poco qualificate sotto il profilo architettonico, ma pur sempre attrezzate per ospitare saltuariamente membri della Corte. Attorno al terzo decennio del Quattrocento assistiamo però a un salto di qualità davvero sorprendente nell’organizzazione di questi spazi. È nelle vicinanze di Voghiera, località che la tradizione erudita considerava come matrice del successivo insediamento di Ferrara, che negli anni di Nicolò III prende corpo il palazzo marchionale di Belriguardo, un insediamento “amplissimo” e dall’assetto monumentale decisamente originale, al quale la storiografia architettonica più avvertita ha solo tardivamente rivolto l’attenzione che merita3.
Edificato a partire dal 1436, Belriguardo si sviluppa per effetto di ripetute campagne di lavori edilizi solo parzialmente registrate dalle fonti contabili sopravvissute, che documentano un impiego di risorse finanziarie davvero cospicue, anche se somministrate per flussi discontinui che non permettono di datare con sicurezza ogni diversa fase costruttiva4.
Le strutture monumentali superstiti, oggi frammentarie e scomposte, profondamente ridimensionate sia negli alzati che in pianta, lasciano solo parzialmente intravedere la grandiosità di un edificio il cui nucleo regolare si componeva di due cortili quadrangolari di ampie dimensioni disposti in sequenza assiale e raccordati da un imponente corpo di fabbrica intermedio, nelle cui vicinanze germinarono poi strutture funzionali accessorie e soprattutto pergole e vigne, peschiere, “broli” e giardini architettonicamente integrati. Precoce espressione di quell’aspirazione umanistica tesa a recuperare un’idea di villa all’antica di matrice letteraria, Belriguardo va riconosciuto come il più illustre antecedente di tutti quegli insediamenti signorili che si misurarono consapevolmente con quell’eccellente modello antiquario tratto dalle Epistolae di Plinio il Giovane. L’antico codice infatti, aveva iniziato a circolare proprio in ambito ferrarese grazie a Guarino da Verona, suo scopritore, ed è proprio alla diffusione di quel testo (dal 1419) che seguirono le prime ammirate trasposizioni per achitecturam di Tusci e del Laurentino5.
L’architetto del palazzo, che la tradizione (peraltro oggi smentita dai più recenti sondaggi archivistici)6 vuole riconoscere in Giovanni da Siena, fu senz’altro influenzato dai circoli umanistici ferraresi che ruotavano a tomo a Leonello e mise a punto uno schema che sen bra addirittura riallacciarsi alla ricostruzione vitruviana della casa greca7.
Come ha suggerito Christop Frommel, l’edificio mostra una planimetria sorprendentemente regolare per l’epoca, ma si eleva poi con alzati ancora gotici che sembrano tenere d’occhio radici medievali saldamente ancorate nella tradizione padana e specie in quella veneziana, cui sembra riconducibile addirittura la “magna sala” dove “triumphi se fano”8 paragonabile, anche al confronto metrico, con analòghi ambienti del Palazzo Ducale9.
Al di là dei pur dettagliati inventari patrimoniali, il più penetrante ritratto verbale di questa vera e propria reggia lungo il Sandalo risale agli anni di Ercole I ed è contenuto nel De Triumphis Religionis di Giovanni Sabadino degli Arienti, lo speculum principis in cui l’umanista bolognese registra minuziosamente l’inestricabile intreccio degli ambienti di corte e di quelli fattorali, in un itinerario labirintico che si dipana dagli spazi di rappresentanza a quelli privati, dagli offici di cancelleria ai magazzini, dai locali agricoli veri e propri fino ai granai e alle stalle e infine, ancora una volta, ai sorprendenti giardiniI0.
Alla lunga descrizione di Belriguardo fa seguito, sempre in Sabadino, quella altrettanto appassionata dei giardini e delle architetture di Belfiore, «iocundiale palazo»1l fatto edificare da Alberto V assieme a Schifanoia come decentrata residenza di rappresentanza signorile, ma pur sempre localizzata nelle immediate vicinanze del recinto cittadino, tanto da risultarne poi inglobata, nel corso dell’espansione urbana di età erculea.
A Belfiore sia Leonello, sia Borso investirono molte risorse, rinnovando il precedente edificio (dal 1447) e introducendo locali all’antica come la “camara del bagno” e soprattutto ambienti raffinatissimi come lo Studiolo12 realizzato sulla traccia di un dettagliato programma iconografico esteso da Guarino da Verona e destinato ad un uso strettamente riservato del principe.
Forse meno accogliente di Belriguardo, che nelle parole di Sabadino, poteva arrivare a ospitare, a un tempo, fino a quattro principi con il loro seguito13, anche Belfiore va a buon diritto inserito in quel circuito cerimoniale che gli Este approntarono per i loro ospiti, al momento del loro ingresso in città, almeno fino agli anni di Alfonso I.
Con il primo duca di Ferrara, Borso d’Este, l’elenco dei palazzi extraurbani si accresce a mano a mano che il patrimonio si consolida. Inventari, testimonianze indirette e la stessa Genealogia Estense ci permettono di individuare un reticolo sempre più fitto di proprietà allodiali spesso frequentate dal principe, che quasi ovunque ne attrezzò convenientemente i locali per diporto proprio e dei suoi ospiti14.
Ancor più che nel passato, la corte di Borso ci appare in perenne movimento, una vera e propria «corte errante»15 che si trasferisce saltuariamente dalla città al contado, dalla Corte Vecchia alle ville suburbane, nelle quali si trattiene, passando di palazzo in palazzo, sia per tenere sotto più oculato controllo lo stato delle “aziende” agricole che arricchivano le dispense ducali, sia per partecipare a battute di caccia o di pesca che in molti casi altro non erano che occasioni diplomatiche per rinsaldare legami politici. La riqualificazione residenziale delle delizie operata dal fratello di Leonello è “impresa” ducale perseguita con determinazione e largo dispiego di risorse, ma di cui ben poche tracce materiali sopravvivono. Le tenute di Bellombra, Benvignante, Casaglia, Fossadalbaro, Ficarolo, Ostellato, Medelana, Monisteruolo, Quartesana, Quartiero e Zenzalino, per nominare solo alcune delle tante registrate dagli inventari e celebrate dai panegiristi16 e cui il duca dedicò la propria attenzione al di là dei più noti insediamenti di Sassuolo o di Copparo, da lui più ampiamente sfruttati per le grandi cacce, oggi sono poco più che semplici toponimi associati a insediamenti agricoli che solo in minima parte possiedono i connotati signorili di allora.
È stato osservato che quell’inclinazione “itinerante” di Borso fu più contenuta in Ercole I17, la cui politica di magnificenza si espresse soprattutto in città attraverso gli impegnativi progetti di rinnovo ed ampliamento urbano che lo avrebbero reso celebre.
Ma da vero principe costruttore quale era «qui urbem magis colit quam rura»18, Ercole I non rinunciò ad abbellire le sedi decentrate del dominio, spingendosi anche a riformare e sviluppare i presidi ai confini dello Stato, fra i quali ad esempio la “prisca casa” di Comacchio, dove mise a punto di persona un progetto architettonico poi sottoposto per l’esecuzione al parere di Biagio Rossetti19.
Tra le diverse castalderie in suo possesso, Ercole manifestò un sincero entusiasmo soprattutto nei confronti del Barco nuovo di Belfiore, noto anche come Barco di Ferrara, ovvero di quella vasta spianata che si estendeva a nord della trecentesca Porta dei Leoni e che era stata da lui stesso costituita per «diversi accrescimenti de peze de tera aradure avidate e casamentive»20già pochi mesi dopo la sua creazione a duca, tra il 1471 e il 1472, dilatando oltremisura gli spazi scoperti e agricoli nelle adiacenze del Palazzo di Belfiore per ricavarne una riserva venatoria poi ampiamente descritta da Ludovico Carbone e in diversi altri testi encomiastici21.
Il Barco venne delimitato da una muraglia e al suo interno furono introdotti animali esotici (tra cui leopardi e pavoni) come in un vivarium all’antica, ricco d’acque, distribuite attraverso piscinae, e di piccoli edifici, tra cui padiglioni e ricoveri per gli animali. Ercole mise poi mano, come i suoi avi, anche alla panoramica residenza di Belfiore, tutta interna al Barco, dalle cui logge si poteva abbracciare a vista «quasi tutta la prisca e nova citate»22 e vi costruì una «loza grande» e altri portici, dedicando altrettanta attenzione anche alle strutture fattorali e di servizio.
Va inoltre sottolineato che proprio il Barco giocò un ruolo di primo piano nell’ambito delle strategie di disegno urbano del duca a partire dal 1491. L’Addizione Erculea infatti fu in gran parte realizzata proprio sui terreni del Barco adiacenti al centro medievale «non longe a civibus»23, i quali furono largamente «scavezadi» per scavare fosse, tracciare strade, traguardare confini, e infine erigere nuove mura, in una complessa sequenza di interventi documentata da numerose fonti scritte24.
Il nuovo diaframma murario realizzato da Biagio Rossetti e Alessandro Biondo dopo il 1495 frazionò infine il Barco in due settori, uno più settentrionale che continuò ad estendersi verso Francolino e il Po Grande mantenendo le sue caratteristiche di riserva di caccia e un altro a sud, che fu compiutamente trasformato in Terra Nova e dunque in città, sopravvivendo però in parte con la denominazione di “Barchetto”.
L’urbanizzazione della Terra Nova toccò infatti solo in minima parte la fascia più vicina alle mura che, simile in questo agli antichi pomeria, continuò a giocare il ruolo di diaframma difensivo e al contempo integrato da altre funzioni di carattere residenziale e ricreativo che il successore di Ercole I, Alfonso I cercò di sfruttare ampiamente nei suoi anni di regno. Il terzo duca di Ferrara promosse infatti e favorì la realizzazione di nuovi palazzi di rappresentanza dotati anch’essi di splendidi giardini lungo il perimetro interno del recinto, dalla Porta di San Benedetto alla Montagna di Sotto, intensificando le sue opere proprio ai poli estremi di questo percorso, là dove poco prima era intervenuto con più energia per aggiornare le mura urbiche e il nuovo fronte bastionato (1519-1521). A ovest rifondò il Palazzo della Castellina, nei pressi della Porta di San Benedetto, dove vennero costruiti anche nuovi padiglioni termali25 e sul versante orientale impostò la cosiddetta Delizia della Montagna che il figlio Ercole avrebbe poi compiutamente attrezzato quasi vent’anni più tardi. Tutto questo mentre venivano coltivati, sempre lungo le mura, i giardini ducali della Ragnaia e del Barchetto26.
Ma la residenza ducale alfonsina, questa volta posta in un sito leggermente suburbano, cui si attribuì il maggior valore sia dal punto di vista artistico che cerimoniale e simbolico fu senz’altro il Palazzo di Belvedere, altrimenti detto Boschetto, realizzato nell’omonima isola sabbiosa lungo il Po di Ferrara, a poche centinaia di metri di distanza dal ponte mobile sul fiume che fronteggiava il Castel Tedaldo. Raso al suolo negli anni che seguirono la Devoluzione (1598), questo complesso sistema di edifici, giochi d’acque e giardini resta testimoniato da labili tracce iconografiche che vanno lette con cautela, affiancandole alle più numerose fonti scritte che ne descrivono l’originale organizzazione spaziale27.
Cinta di mura, l’isoletta polesana era occupata, a ovest, quasi interamente da un vivarium alberato, i cui serragli con animali esotici erano uno dei più eclatanti attributi della regalità del principe, mentre le residenze vere e proprie si estendevano sull’estremità orientale, dominata da un palazzo a pianta longitudinale con torri alle estremità e ampia corte aperta su loggiati. Inserita lungo l’itinerario cerimoniale che guidava gli ospiti illustri in arrivo in città (dalle sale si godeva di una magnifica visione di insieme della città oltre Po), la “vaga isoletta” associata ai nomi di Ariosto e del Tasso, fu un centro del potere estense per tutto il Cinquecento e magnifico teatro delle più importanti manifestazioni culturali di corte, come nel caso della prima rappresentazione dell’Aminta (1573). Il primo impianto della residenza di Belvedere risale al 1513 ed è documentato come uno dei più tardi interventi ferraresi di Biagio Rossetti, all’epoca impegnato in diverse fabbriche extraurbane sia per il duca, sia per il fratello, il cardinale Ippolito I d’Este28.
Anche il figlio Ercole II, che pur dimostra di prediligere altre residenze, sia in città sia nel contado, dedica attenzione a Belvedere affidandone il riordino degli ambienti a Girolamo da Carpi (1528), che ritroveremo spesso assieme a Terzo Terzi in gran parte dei nuovi cantieri ducali. Due sono gli interventi architettonici in città, ancora una volta nei pressi delle mura, che il quarto duca di Ferrara sostiene con particolare impegno per soddisfare le proprie esigenze ricreative e di magnificentia e sono entrambi «palazzi di montagna, con vaghissime selve, e nobilissime fonti, e labirinti»29.
La Palazzina della Montagna (dal 1538), un raffinato padiglione costruito nei pressi della altura artificiale posta a “cavaliero” del bastione omonimo, fu progettato con ogni probabilità dallo stesso Terzo, che qui creò una serie di raffinati ambienti che ruotano attorno a un cortile quadrato con porticati rustici su due lati, mettendo altresì a punto sofisticati impianti idraulici per i bagni ducali (il padiglione è ancora oggi noto con questa denominazione)30.
A Girolamo da Carpi vanno invece ricondotti i disegni per gli spazi ipogei nel vivo dell’altura vicina e probabilmente anche quelli per i giardini spiraliformi, di derivazione serliana, con al centro la fontana “della lumaca”31 che ne ornavano le pendici.
Nel Palazzo della Rotonda (1550), rielaborazione sorprendente di una delle torri del recinto rossettiano, dove «alla fortezza delle mura ha aggiunto grandissimo ornamento»32, Ercole ripropone invece ambienti che si richiamano ad alcune sale del Castello di San Michele, ma in forme ridotte, quasi a ribadirne l’uso riservato.
Negli attigui giardini, vero proprio paradisus principis altrettanto esclusivo che riecheggiava spazi ariosteschi, fu disegnato, a ridosso della cosiddetta Montagnola, un micidiale “cavaliero” a tutela delle cortine murarie di nordest, anch’esso elevato artificialmente e portato a compimento terrazzandone la cima in forma pentagonale33.
Ma la residenza suburbana preferita da Ercole II fu senz’altro quella di Copparo, situata a una ventina di chilometri da Ferrara, in una zona all’epoca ancora in gran parte incolta e celebre per l’attività venatoria che vi si svolgeva. Ancor più di altre residenze estensi, la Copparo erculea, celebrata come «real palagio» da Giraldi Cinzio34, sfugge alla ricognizione visiva (tra le poche immagini che la raffigurano solo la Cosmographia di Marcantonio Pasi (1571) ce ne restituisce per vie sommarie l’aspetto) e si lascia comprendere prevalentemente alla luce dei documenti scritti superstiti, grazie ai quali è possibile seguire anche il suo percorso progettuale, fin dall’inizio nelle mani di Terzo Terzi35.
A partire dal 1540, Terzo rinnovò a Copparo uno schema non dissimile da quello già sperimentato a Belriguardo, che prevedeva la successione di due corti regolari di altimetria diversa, probabilmente definite da loggiati e porticati in opera rustica. La differenza stava nel fatto che qui il corpo di fabbrica maggiore, con i principali ambienti di rappresentanza, riecheggiava strutture castellane e neofeudali con massicce torri ai quattro vertici e un quinto torrione al centro del prospetto principale, mentre una “bassa corte” più arretrata soddisfaceva le esigenze fattorali. Per esaltare la genealogia estense, Ercole II fece realizzare all’interno del palazzo (1544) uno degli spazi più sorprendenti del Cinquecento ferrarese e cioè quel «salotto in crose» o «della crosiera»36, posto nelle adiacenze della grande torre principale, con uno sfondato illusionistico in sommità, sulle cui pareti Girolamo da Carpi dipinse un precoce ciclo celebrativo dei principi d’Este e al di sotto del quale Camillo Filippi approntò un altrettanto importante ciclo cartografico murale con l’intento di descrivere il raggio d’azione del principe illustrando le città del dominio.
Girolamo è stato chiamato in causa anche per la progettazione architettonica del Palazzo del Verginese, una possessione estense nei pressi di Gambulaga, a breve distanza da Belriguardo, che Alfonso I donò nel 1534 a Laura Dianti e che costei fece sistemare negli anni seguenti ricavando un originale edificio dalla pianta rettangolare leggermente allungata con quattro torrette ai vertici, svettanti e merlate, dal basamento a scarpa, bugne sui cantonali e portale rustico, ancor oggi conservato seppur profondamente rimaneggiato nel corso del Settecento37.
Tornando a Copparo, va ricordato che durante il secondo Cinquecento il palazzo venne frequentato assiduamente da Alfonso II, che se ne servì a più riprese e vi ospitò diversi principi stranieri, seguendo un cerimoniale che incluse negli itinerari di visita località che fino ad allora ne erano state per lo più escluse. In questo circuito entrò, a partire dai tardi anni Settanta del Cinquecento anche la residenza di Isola, una delle più originali espressioni della cultura di “delizia” degli Este, inspiegabilmente trascurata dalla storiografia contemporanea38.
Isola fu “impresa” del fratellastro di Ercole II, don Alfonso d’Este, figlio di Alfonso I e di Laura Dianti e dunque zio del duca Alfonso II. Questa singolare creazione architettonica consisteva di un insediamento in miniatura dominato da un palazzo signorile costruito su di un minuscolo arcipelago di isolette situate in una località lacustre nei pressi di Pontelagoscuro, a ridosso dell’argine maestro del Po Grande e che confinava con il Barco e la tenuta della Diamantina, a breve distanza da Ferrara. Qui in una data ancora imprecisata, don Alfonso fece edificare una residenza per l’appunto “in isola”, dalla labirintica distribuzione degli ambienti interni, collegata mediante ponticelli a piccoli padiglioni dalla pianta rispettivamente «triangola, quadrangola e quintangola», con torrette rotonde agli spigoli e coperture a «pan di zucchero» e «alla Fiamenga»39.
Federico Zuccari che la visitò nel 1609 quando era oramai in via di abbandono, ce ne ha lasciata una straordinaria descrizione nel suo Passaggio per Italia, dove ne descrive la «stravaganteria», letteralmente rapito dalle qualità fiabesche del luogo40.
Percepito come un teatro di inganni, trabocchetti visivi e bizzarrie ornamentali, il Palazzo di Isola viene letto da Zuccari come il capriccio di un committente particolare, impegnato a fabbricare un «castello incantato»41 di ispirazione ariostesca, quasi avesse inteso dare corpo a un «palazzo di Alcina»42, o a un «castello di Atlante»43, progettati dietro ispirazione letteraria per stupire la Corte alfonsina e gli ospiti illustri che qui facevano scalo provenendo via nave dal Po. prima di raggiungere Ferrara44.
Nell’insediamento lillipuziano trovava addirittura spazio anche una minuscola flotta di imbarcazioni governate da “nanini” vogatori. che si spostavano di isoletta in isoletta per traghettare i cortegiani qui per diporto45.
Un’altra delizia che presentava corrispondenze con questa di Pontelagoscuro. doveva certo essere quella di Campogalliano, costruita da Filippo d’Este, marchese di San Martino nelle vicinanze di Modena attorno al 1575 e caratterizzata anch’essa da un particolare rapporto tra gli edifici e l’acqua. Anche qui un palazzo “in isola” si trovava al centro di larghe fosse che creavano una sorta di arcipelago con diverse isolette popolate da altrettanti “casini” e splendidi parterres giardinieri, dando corpo a un delicato quanto equilibrato rapporto tra le fabbriche e gli specchi d’acqua circostanti46.
Una relazione spaziale dettata forse dalla volontà di ri–progettare, con ingegnosi interventi idraulici e altrettanto artificiosi movimenti di terra, paesaggi in cui inserire architetture fantastiche come quelle descritte nei poemi epici e cavallereschi (dall’Amadigi alle opere dell’Ariosto e del Tasso), o dal desiderio di ricreare ambienti “originari” della pianura bassopadana, come potevano esserlo quei polesini mitici (le isole Elettridi) o storici (le isole deltizie narrate da Plinio nella vastità dei suoi septem maria) sulla cui forma e consistenza si interrogavano proprio in quegli anni gli storiografi e gli eruditi di corte, come il Sardi o il Pigna. Nel corso del secondo Cinquecento i territori più orientali del Ducato furono intensamente trasformati per effetto della Grande Bonificazione Ferrarese (1566–1580 circa) che si distinse come uno dei principali cantieri del genere nell’Europa del tempo, vero e proprio dispensatore di “terre nuove” e dunque di più favorevoli condizioni per lo sviluppo agricolo. Le operazioni di prosciugamento del territorio impaludato si svolsero in parallelo ai tentativi di risanamento della navigazione interna e di sviluppo della portualità marittima. In taluni casi, queste opere sollecitarono ambiziosi, quanto velleitari, disegni insediativi e di colonizzazione, in cui gli Este giocarono un ruolo chiave come promotori. Nell’ambito dei presidi di più antica tradizione va in particolare ricordato quello di Magnavacca, nei pressi di Comacchio, dove Alfonso II fece riedificare la residenza delle Casette con un progetto probabilmente sviluppato dall’architetto ducale Alessandro Balbi, che a partire dal 1578 realizzò un maestoso edificio dalla pianta rettangolare e torri poligonali ai vertici di gusto “todesco”, con una adiacente “bassa corte”, giardini e peschiera. Tra le iniziative di nuova fondazione, il caso più importante riguarda senza dubbio le foci del Po di Ariano. Fu qui infatti, che Alfonso II d’Este cercò di sfruttare un porto naturale (la Sacca di Goro), vasto e ben ridossato dai venti, che si trovava nelle vicinanze dell’isola di Mesola (uno dei caposaldi della Grande Bonificazione), per costruire un insediamento che avrebbe potuto svilupparsi non solo come castalderia legata allo sfruttamento dei terreni da poco tempo redenti, ma anche come un attrezzato centro portuale, capace di intercettare i traffici marittimi e inoltrarli verso le pianure continentali. Nel 1578, quando i lavori di prosciugamento del polesine di Ferrara stavano giungendo a termine, a Mesola venne avviata la costruzione di un enorme circuito murario a forma di poligono irregolare della lunghezza di circa dodici chilometri (più del recinto di Ferrara) con dodici torrioni quadrangolari lungo le cortine, al cui interno fu poi edificato un nucleo di edifici signorili raccolti attorno ad un palazzo ducale a pianta quadrata, con torri disposte in diagonale ai vertici e “bassa corte” semiottagona, il tutto sulla base di un progetto di Marcantonio Pasi (1583)47.
A partire da una lettura prevalentemente effettuata su fonti cronachistiche e letterarie, una storiografia di corto respiro ha lungamente associato il palazzo estense e il circostante “barco” a semplice “delizia” ducale, teatro di svagate attività ricreative di una Corte, al tramonto. In realtà di questo recinto e delle sue potenziali funzioni parlò, più apertamente di altri, Alberto Penna alla metà del Seicento in un passo della sua Compendiosa descrittione dello Stato di Ferrara, che mette in luce finalità di tutt’altra natura e segno48, oltre a quelle ricreative e conviviali, insomma “per diletto” che pure ci furono.
Le residenze ducali e quelle progettate da parte dei principali cortegiani dovevano probabilmente essere il caposaldo di un ben più vasto intervento urbano da svilupparsi, nel caso si fossero manifestate condizioni politiche opportune, all’interno di quel nuovo recinto.
Testimoni oculari contemporanei alla costruzione del circuito di mura, parlano esplicitamente di un progetto per la costruzione, in quei recessi deltizi, di una «nuova Venezia»49, ideata allo scopo di sottrarre entrate daziarie alla Serenissima, mentre altre fonti spionistiche, inviate a indagare sulle reali intenzioni del duca, riferiscono del tracciamento di canali interni e di’strade e piazze «con li nomi et cognomi […] come è in Ferrara».
Lo stesso Tasso, oltre a dedicare un madrigale encomiastico In lode della Mesola, poi musicato da Giaches de Wert, alludendo a ciò che «più non fece mai la natura e l’arte e far non lece» proprio in quei luoghi, citò l’opera di Alfonso II nel suo dialogo de la nobiltà, ovvero il Forno celebrando sopra ogni altro sovrano proprio il suo duca che «ad imitazione de gli antichissimi principi, i quali costruivano le città» aveva «cinto un grandissimo paese di mura» proprio su quel «lido estremo»50.
Il progetto, se mai avesse dovuto corrispondere a quei disegni strategici di lunga lena, non andò però mai in porto. Costretto a interrompere le attività edilizie in corso a causa delle energiche pressioni di Venezia, che temeva il potenziamento degli scali ferraresi sul Po, Alfonso II cercò di valorizzare quella che era pur sempre in larga parte una sua proprietà allodiale, sfruttandone semplicemente il potenziale agricolo, come continuarono a fare più tardi i suoi eredi, che ne mantennero il possesso per quasi due secoli. La castalderia di Mesola continuò così a funzionare a lungo, ma quei ben più ambiziosi progetti di sfruttamento commerciale e marittimo che ne avevano motivato le originarie scelte insediative furono completamente stravolti a causa di un’imprevedibile azione deterrente messa consapevolmente a punto dalla Repubblica di Venezia dapprima contro gli Este e poi contro la curia romana. Fu con la realizzazione del Taglio di Porto Viro (1599-1604), colossale progetto idraulico di deviazione del Po di Tramontana sostenuto da motivazioni tecniche che non sempre esplicitavano le più profonde ragioni politiche, che i porti ferraresi vennero messi rapidamente in crisi. Gli effetti di quella operazione idraulica comportarono ben presto una ridefinizione morfologica di enorme portata per l’intera area deltizia. Il paesaggio cambiò con velocità travolgente già pochi anni dopo e i nuovi apporti sedimentari trascinati dal fiume misero seriamente in difficoltà gli approdi, primo fra tutti il porto di Goro, e gli scoli della bonifica, causandone quel progressivo interrimento e declino che sfociò poi nell’aperta crisi seicentesca dell’intero Ferrarese oramai saldamente nelle mani della Santa Sede. L’insediamento mesolano decadde progressivamente e a farne le spese per primo fu proprio il circuito di mura di Mesola, via via smantellato per recuperarne il prezioso materiale laterizio. E la scomparsa di queste monumentali strutture sul Delta non fu un caso isolato. Il declino economico dell’intera area deltizia per un arco di tempo ultracentenario avrebbe segnato irreversibilmente il destino di quasi tutti gli insediamenti estensi nel Ferrarese, già centri di eccellente produzione artistica e protagonisti ancor oggi in gran parte negletti di una delle più originali esperienze architettoniche e paesaggistiche del Rinascimento italiano.