Delizia (e altro): Storia di un nome, di un equivoco, di una tradizione

GIANNI VENTURI

Da sempre, nel sistema della corte estense e nella memoria storica, i luoghi di svago, fossero ville e giardini, castelli riattati all’uso cortigiano, isole o parchi vennero e vengono chiamati delizie. Belriguardo e Belfiore, Schifanoia e S. Giorgio, come tanti altri della città e del contado, si fregiarono di un termine la cui lunga storia è indicativa del carattere edenico, ovvero paradisiaco, che quei luoghi indicavano. Un Eden che la sapiente e accorta politica estense così attenta ai valori dell’immaginario collettivo e cortigiano, seppe alimentare con un’imponente opera d’incentivazione delle delizie sul territorio, rendendole, come nel caso più clamoroso di Belvedere, simboli nemmeno troppo nascosti del loro programma politico, immagini del buon governo in uno stato che, proprio con l’avvento degli Estensi, recupera l’immagine edenica della vita, il senso di una qualità di “bella età dell’oro” a cui si rivolgono per renderne palese la novità e la convinzione, gli affreschi di Schifanoia o, nel maturo autunno della potenza estense, i versi della tassiana Aminta, ormai consapevoli che la bella età dell’oro si sta per chiudere proprio per la degenerazione della Corte, invano trasposta nell’Arcadia di Belvedere e nell’elegiaca vicenda della ninfa e del pastore1.

Ma la storia del termine delizia, fin dagli inizi, è una storia di un equivoco, di un fraintendimento legati al concetto stesso di Eden e Paradiso che si tramanda nel tempo e che vale la pena di ripercorrere per indagare il senso di un nome, di un concetto e di un simbolo legati indissolubilmente alla tradizione della cultura occidentale.

Una tesi, assai affascinante, che mette di nuovo in forse l’equazione Eden-Paradiso2, sostiene che non sempre l’Eden è Paradiso, ma che l’identità tra l’uno e l’altro termine è frutto della sola tradizione biblica; in tal modo, viene dimenticata tutta quella lunghissima e capitale speculazione sul senso del giardino che dai Sumeri, attraverso una tradizione antichissima, viene recepito e diffuso dalla classicità grecoromana.

Non è poi da stupirsi se già nel Medioevo tradizioni diverse si fondessero, ma lasciassero inalterato l’ormai avvenuta simbiosi tra Giardino dell’Eden – Paradisus voluptatis – Paradisus diliciarum. Ed è da qui che il termine delizia, nasconde, sotto le semplici apparenze di un nome, nato come vedremo da un’equivoca traduzione, il senso fortissimo del Paradiso che non necessariamente deve essere religioso, ma che rimanda alla perduta – e forse riconquistata – consapevolezza di avere riportato nella storia il luogo “fatto per proprio dell’umana specie”: il Paradiso delle delizie, il Giardino dell’Eden per sempre perduto, ma che forse i nuovi dèi, le divinità tutelari di una città e di uno stato sapranno ricreare come potente immagine, come simbolo persuasivo di una rinnovellata età dell’oro. E se il mito paradisiaco è fondante nell’immaginario cortigiano rinascimentale, mai come presso la corte estense si è espresso in valenze forti, in immagine specularmente perseguita e nella sua teorizzazione poetico- visiva e nella sua realizzazione urbanisticoarchitettonica Ferrara, Paradisus diliciarum.

Una identificazione tra Eden e la delizia di Belvedere, ad esempio, è sostenuta in modo clamorosamente iperbolico da un commentatore prolisso e pedante del Genesi, Agostino Steuco da Gubbio che nella sua Cosmopoeia, pubblicata nel 1535 non esitava a paragonare, o meglio a identificare, l’Eden javhista con la delizia di Belvedere: l’uno, il Paradiso di Dio, l’altro il Paradiso del Principe3.

Fossadalbero
Fossadalbero

Non è un caso poi che proprio a uno scrittore di esegesi biblica venisse con forza l’identificazione tra Eden e giardino delle delizie proprio perché è nella stessa tradizione esegetica che il concetto di Eden si fonde con quello di paradiso.

Se si ripercorre la vicenda storicoesplicativa del termine Eden, ben presto possiamo renderci conto del come è avvenuta quella simbiosi e del perché essa ha agito così potentemente nella simbologia occidentale.

Primo: che Eden non fosse un giardino, ma un territorio, è agevolmente dimostrabile. Si veda la pericope di Genesi 2, 8: «Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato». Quindi, un giardino nel territorio di Eden, posto ad Oriente. Il redattore jahvista del Genesi usa per indicare il giardino, il termine gan che, secondo i più accreditati biblisti sta a significare “recinto con alberi”. Questo giardino perciò non si identifica con il paradiso; è cioè, secondo la straordinaria immagine dantesca, il luogo «fatto per proprio dell’umana specie» dove Dio trasporta l’uomo affinché lo custodisca e lo coltivi. Il gan, dunque, è il giardino che Dio piantò affinché l’uomo lo coltivasse. Esso si trova ad Oriente, in Eden, una terra che profeti, scrittori, poeti, geografi tentarono di ricercare sempre più lontano dalle terre abitate, isola o monte, Atlantide o Eldorado. Da qui, da questa convinzione, nata presso popolazioni seminomadi che scoprivano il senso dell’agricoltura esercitato in terre aride o difficili da coltivare, si sviluppa il mito gratificante del gangiardino, dell’hortus conclusus ricco di tutte le specie vegetali e animali, dove un Dio clemente ha posto l’uomo che, si badi bene, nasce alla vita come giardiniere. Ecco dunque due corollari: il mito edenico poggia la sua essenza su un concetto assai semplice, ma che non è stato sufficientemente tenuto presente. Se l’uomo è nato per il giardino, perdendolo, perdendo cioè la possibilità di esercitare quella sublime attività voluta per lui dalla volontà divina, tenterà secondo un mitologema continuamente narrato e continuamente deluso di ritrovare e di ricreare il luogo edenico nei giardini, nei paradisi di delizie che simboleggiano il patto per sempre rescisso di una pace della natura sconvolta dal peccato primigenio. Borchardt, uno dei massimi pensatori contemporanei e acutissimo interprete della filosofia del giardino, in un’opera ancora non tradotta in Italia4 il cui titolo è Il giardiniere appassionato (Leidenschaftliche Giirtner), poeticamente esprime questa ansia continuamente delusa, ma mai spenta nell’umanità di riaccedere al giardino proibito.

C’è, scrive, «nel ritmo testardo del cuore umano, in ogni momento di campo e di puerperio, la decisione di riedificare il paradiso, sia pure alla finestra del sesto piano sul retro di una casa, per la prossima cacciata e di sfidare l’angelo dalla spada folgorante».

Secondo corollario: il gan sta per assumere nell’immaginario collettivo il senso del paradiso. Ma qual’è l’etimologia di questo nome che si carica plurisemanticamente di una serie di riferimenti simbolici, fino ad assumere quello da tutti noi riferibile ad una realtà ultramondana e non terrestre? Come cioè dal Paradiso terrestre si passa al Paradiso? L’identificazione del gangiardino con l’Eden, la terra che lo accoglie è già compiuta nell’Esateuco dove si parlerà di giardino dell’Eden e di Eden.

Ma attenzione! Nella tradizione ebraica eden usato non come sostantivo ma come attributo sta a significare delizia. Tra Eden e delizia si pone perciò il primo e inscindibile legame, anche se per ora puramente semantico in quanto “eden” nel senso attributivo è sempre usato al plurale. Girolamo, nella Vulgata poi traduce i termini gan e eden, tenendo presente e l’originale ebraico e la versione greca dei LXX, la celebre versione ellenistica, dove il termine gan viene tradotto con paradeisos ovvero con quel termine, usato già da Senofonte, che significa il parco di caccia del re, circondato da un vallo profondo, grecizzazione del persiano pairidaeza, molto simile all’aramaico pardesa o al sanscrito paradesna. «Plantaverat autem Dominus Deus Paradisum voluptatis a principio: in quo posuit hominum quem formaverat».

Si chiude così il cerchio: il giardino è diventato paradiso; “di eden” è diventato “di voluttà” o meglio di delizie. Paradisus voluptatis, Paradisus diliciarum, il giardino è il luogo delle delizie: è la delizia. Ma non basta una trasformazione semantica a giustificare il destino di un nome. Occorre che il giardino come paradiso traversi tutta la Bibbia, diventi l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici o la Gerusalemme celeste dell’Apocalisse giovannea. Solo allora sarà metafora del vero Paradiso, del regno dei cieli e potrà essere distinto tra paradiso terrestre – il giardino di Eden – e Paradiso, il compimento in senso figurale del destino dell’uomo giusto.

In età medievale il paradisogiardino, a cui tende l’umanità diventa oggetto di favolose trasformazioni geografiche, spirituali, letterarie. C’è chi lo vede, come il santo monaco Brandano, presso le isole occidentali, confondendo il paradiso terrestre con gli Elisii della tradizione classica; c’è chi lo riveste dei colori e delle gemme della tradizione persianoaraba; c’è chi lo identifica come la raffigurazione della Jerusalem coelesti, c’è chi, come i monaci benedettini o cistercensi lo assimilano al claustrum, il giardino di pietre e d’erba, che sta al centro del sistema chiuso del monastero e che tanto spesso viene chiamato Paradiso ovvero giardino dell’anima. E si pensi a quelli sublimi di Amalfi, di Monreale o di Mont Saint-Michel.

Ma le delizie sono più d’una: il Giardino, santo ricettacolo delle sacre conversazioni, pio rifugio dell’anima nei monasteri, può anche essere il luogo che da sempre ospita il peccato, il serpente suasivo all’errore e alla superbia. Sono allora i paradisi di delizia dei sensi, le fountaines de juvence a cui si abbeverano le vergini folli, sono gli horti conclusi del Roman de la Rose o, in altre situazioni e in altri momenti, la rifondazione del nuovo Eden operata dal Decameron di Boccaccio, un Eden tutto laico e simboleggiante la ragione signorile5, o i paradisi della mente rievocati attraverso la sacrosanta antiquitas dal Petrarca di Valchiusa6, cioè del vero iniziatore delle delizie umanistico -rinascimentali.

Perduta, o perlomeno limitata, la sua carica religiosa, il giardino e conseguentemente la villa o il palazzo che l’adornano, diviene il luogo di un paradiso della mente, luogo cioè che, sotto l’influsso del neoplatonismo fiorentino e della perdurante suggestione petrarchesca, presta all’otium intellettuale il più suggestivo degli ambienti. Ficino investe il giardino, nell’Accademia Caregiana, di una sacralità poetica, Lorenzo il Magnifico, nella sua Ambra, canta la costruzione della villa e del giardino di Poggio a Caiano come un avvenimento mitico; lo stesso Poliziano ripercorre in nitidi versi latini il senso di quel buen retiro della mente e dello spirito. Il dilagare – tramite Bembo – del neoplatonismo fiorentino nella cultura veneta, fa di Murano, di Venezia, di Asolo e delle dolci colline trevigiane e vicentine i luoghi eletti per i paradisi della mente e dell’amore nella nuova e vincente interpretazione dell’amore platonico, di un amore, cioè, che iuxta i principi ficiniani ripresi da Bembo, Equicola, Castiglione, Leone Ebreo, sol per citare i maggiori, innalza l’amore a una rarefatta vicenda spirituale vedendo nella donna il tramite eletto per attingere Dio inteso come sommo Amore e somma Bellezza.

Amore come desiderio di Bellezza diventa un concetto portante dell’ideologia e della cultura delle corti italiane: soggetto di innumerevoli dialoghi che per tutto il Cinquecento diffondono, rinvigoriscono, divulgano quel concetto e quella civiltà che gli sta dietro e che, forse con un’ombra di esagerazione, potremmo chiamare la civiltà del giardino. E si può parlare d’amore, desiderio di bellezza, solo nel luogo che da sempre esprime la nostalgia della bellezza perfetta della natura: il giardino, inteso come summa di quelle bellezze sparse nella natura, pallido riflesso della platonica Idea che l’uomo tenta faticosamente di ricomporre in un luogo edenico, dove armoniosamente si fondono i ricordi del paradiso terrestre e della mitica età dell’oro, dei giardini di Alcinoo, dell’orto delle Esperidi, dei campi Elisi con il gan del Genesi, con i giardini delle profezie di Ezechiele o con il sublime riferimento al Cantico dei Cantici. Paradossalmente si potrebbe affermare che, come la nuova Theologia ficiniana tenta di contemperare la cultura filosoficoreligiosa classica con l’insegnamento vetero e neo testamentario, altrettanto avviene, in epoca rinascimentale, con l’idea mentale del giardino che complica la propria origine religiosa con i molteplici apporti della cultura classica elevandola a delizia dello spirito e, come vedremo, a simbolo dell’ideologia cortigiana.

A Ferrara e nello stato estense la cultura del giardino e della villa diviene imponente, uno dei segni più espliciti per simboleggiare il potere attraverso un raffinatissimo referente mentale e visivo che ha pochi altri termini di paragone nella realtà politicoculturale dell’Italia rinascimentale. E non a caso proprio a Ferrara, giardino e villa, o più latamente il luogo del loisir cortigiano assumono il nome emblematico di delizia, nel senso che ho tentato di spiegare più sopra. Nel tempo lungo della storia, coincidente con l’ascesa, la presa del potere e il declino degli Estensi si compie e si consolida la storia delle delizie; ma è assai arduo, in questo complesso gioco di rimandi tra idea mentale e realizzazione, tra interesse ideologicoculturale ed edificazione, scegliere quale sia stata la spinta primaria. Di solito, leggendo le cronache o le descrizioni poetiche ed erudite degli intellettuali del tempo, si propenderebbe per una scelta culturale, quasi che proprio la Corte attraverso l’amplificazione retorica cercasse una giustificazione e una legittimazione della propria presenza nello Stato, fino a coincidere almeno praticamente con esso, attraverso un uso simbolico del territorio che significasse in un certo senso l’avvenuta trasformazione in un nuovo Paradisus diliciarum creato, custodito, difeso dalla dinastia e dal sistema politico della Corte. Ma questo potente impulso alla simbolizzazione della Corte e dello stato rappresentato dal sistema dei giardini e delle delizie, non può, d’altra parte, prescindere da una fortissima vocazione urbanisticoarchitettonica in cui si rovesciano ancora più complessamente le istanze ideologiche, politiche, culturali caratteristiche della corte estense. Sarebbe superfluo sottolineare qui l’organizzazione del territorio non solo cittadino, il grande sogno della nova urbs in cui non è esente la presenza anche progettuale del signore estense, l’organizzazione di un sistema urbanistico accortamente amplificato dal battage pubblicitario messo in atto dalla formidabile schiera di intellettuali che l’accorta politica estense ha saputo attirare a corte. In questo senso allora il revival edenico intrapreso e coscientemente perseguito nella costruzione di delizie e palazzi, di quartieri e terre nove, di mura e di barchi, si associa e si compendia con l’ideologia del potere, con una strategia politica aiutata, alimentata, diffusa dall’immaginario cortegiano. Il bello che etimologicamente scandisce le delizie Belriguardo, Belfiore, Belvedere – da puro dato estetico suggerisce e alimenta la convinzione che la bellezza è anche utilità, è sicurezza, è pace, è società civile – la civitas umanistica – è consapevolezza di un buon governo che difende e orgogliosamente esibisce i frutti della nuova età dell’oro. Forse, e sottolineo con l’avverbio la difficile affermazione del principio, il bello rimanda al buono e il buono all’utile.

Tra le delizie poi, una – forse la più celebre e conosciuta – Belvedere, ha compiuto una funzione che assomma e riassume quelle di tutte le altre, anche se hanno svolto funzioni specifiche differenti e differenziate. E la gloria di Belvedere non consiste solo e unicamente perché ha avuto il privilegio di essere cantata, tra gli altri, da Ariosto e Tasso ma perché tanto forte è stata la sua carica simbolicoideologica, come in altra sede ho tentato di chiarire7, da diventare dopo la devoluzione, il principale bersaglio del ritorno all’ordine perseguito dallo Stato della Chiesa che ne ha imposto la distruzione e la sua sostituzione con la fortezza, simbolo persecutorio che si sostituisce all’edenicità della delizia.

Belriguardo
Belriguardo

Il paradiso degli Estensi, teatro del loro fasto, ma anche della loro ideologia, palcoscenico della Corte, ornato da emblemi che proclamavano la pace della natura ottenuta attraverso la difesa militare, simbolo di un’età dell’oro che sopravvanza quella mitica, racchiude più di ogni altro palazzo o villa, giardino o verziere, il senso e il significato della delizia8.

Può così escludersi, partendo da queste considerazioni, il senso univoco della delizia come strumentale luogo di divertimento; così come sarebbe estremamente riduttivo interpretare Schifanoia come apparato festivo creato per gli ospiti della Corte o Belfiore come luogo di vacanze favorito da Lionello o dai suoi successori. Una così imponente e folta presenza delle delizie in città e nello stato, deve far riflettere soprattutto sulla carica ideologica che le giustifica e sull’importanza politica che le riveste. In questo senso una spia estremamente persuasiva è data dal celebre trattatello di Sabadino degli Arienti sulle delizie, palazzi, e giardini dello stato estense. Il De Triumphis religionis9 riveste un’importanza capitale non solo perché essendo di epoca alta permette una ricostruzione dei luoghi non ancora toccati dai grandiosi progetti dell’addizione erculea o dalla politica urbanistica di Alfonso e Ercole Il, ma perché proprio nell’intento elogiativo della magnificentia del Principe rivela la carica simbolica e ideologica delle delizie.

Se si leggono le pagine su Belriguardo o su Belfiore si può agevolmente risalire a quelle prime, importantissime testimonianze di ciò che un tempo veniva chiamato !’intento celebrativo degli intellettuali verso il padronesignore e che oggi va visto, pur niente togliendo a quel primitivo atteggiamento di “cortigianeria”, come documento importante per la storia delle Corti.

particolare con l'isola ed il Palazzo di Belvedere da una mappa di Ferrara attribuita a Marcantonio Pasi
Marcantonio Pasi (attribuito a), Mappa di Ferrara,
Modena, Archivio di Stato: particolare con l’isola
ed il Palazzo di Belvedere

Il libretto dell’Arienti giustifica la grandezza del signore proprio in quella capacità – la magnificentia – di investire grandi risorse nella costruzione di edifici che potessero testimoniare dello spirito liberale del Principe; ma l’argomento che più sottilmente lo scrittore sente più persuasivo è che quelle spese, utili anche sul piano politico, rivestono un grado di esteticità che le riscatta da una mera strumentalizzazione e le rende quindi degne di essere oggetto di una contemplazione – e celebrazione – da parte dei poeti, degli scrittori e degli eruditi.

Solo ristabilendo il corto circuito tra il bello e l’utile è possibile capire la funzione della delizia e il grandioso programma estense urbanisticopaesaggistico.

Nella critica recente, molto si è insistito sulla funzione teatrale di quegli spazi – cortili e giardini – e ancora Belvedere ne è l’esempio più cospicuo. Il senso della scena del Principe non è escluso, ma direi anzi esaltato dalle delizie. Attraverso una sottile rete di rimandi simbolici, il luogo privilegiato del giardino, del parco, della villa diventa spazio sacrale in cui la Corte ha modo di presentarsi non come è ma come vorrebbe essere. Le analisi di Ludovico Zorzi, di Marzia Pieri e, di quanti altri hanno insistito su questa importantissima valenza dello spazio architettonicopaesaggistico che trova la sua massima espressione nel giardino10 vanno tenute presenti per capire meglio la plurisemanticità delle delizie.

L’uso del giardino sia esso la scena in cui la Corte si esibisce nelle solennità degli ingressi, dei matrimoni, delle occasioni festive, sia esso lo spazio privato – il giardino segreto – in cui la “familia” del Principe vive una vita non privata, nel senso che oggi si dà al termine, ma differentemente agìta, racchiude una valenza teatrale fortissima. Non va dimenticato che proprio Ferrara diventa una delle capitali in cui si fonda il teatro moderno perciò non stupisce che all’interno dei tanti giardini che creano un sistema non solo urbanistico, ma esteso a tutto il territorio ferrarese, si possano rintracciare elementi di scenotecnica e di disposizione pratica a farne risaltare l’impiego teatrale. In questa direzione il rapporto natura-pittura assume una importanza decisiva. Si pensi alla natura catturata nelle decorazioni pittoriche non solo di Schifanoia, e per questo si rimanda alla bellissima impresa di investigazione coordinata da Ranieri Varese11, ma alla sala delle vigne di Belriguardo o, in epoca più tarda, – e che quindi è particolarmente indicativa di un interesse costante da parte della Corte – al pergolato che adorna la loggia della Palazzina di Marfisa.

Una natura ficta che si specchia in quella vera del giardino – un vero ideale, naturalmente – e che in epoca manierista, proprio col Tasso, proprio in una situazione che accentua la valenza teatrale e simbolica del giardino, rovescia l’equazione proposta dalla mimesi naturalistica, la natura maestra dell’arte, per proclamare l’arte stessa e quindi l’Idea, l’unica fonte, o meglio la fonte primaria della creazione della natura e del paesaggio. In questo momento capitale della riflessione artistica, a Ferrara si assiste ad un’importantissimo capitolo della storia del giardino che si dilata a capitolo di storia delle idee. Si è detto come Tasso nell’episodio del giardino di Armida proclami l’arte sostitutiva della natura: «l’arte, che tutto fa, nulla si scopre», ma ancora una remora tiene legato Tasso al concetto di imitazione, secondo quel convinto, ma sempre messo in dubbio, principio dell’Unità che non può, pena la disgregazione morale e poetica, affidarsi se non ad un’unica auctoritas e quindi alla natura come opera di Dio. Eppure questa esitazione che si dilata in “scherzo” nei versi successivi, esplicativi del nuovo fantastico rapporto artenatura, «Stimi (sì misto il culto è co’ negletto)/ sol naturali gli ornamenti e i siti./ Di natura arte par, che per diletto/ l’imitatrice sua scherzando imiti»12 diventa il principio primo sul quale poggerà tutta la nuova concezione dell’arte, e conseguentemente del paesaggio, dimidiata tra natura e artificio.

Le delizie che in qualche modo testimoniano anche questa intricata storia dell’immaginario, proprio nella loro funzione risentiranno della metamorfosi, anzi faranno di essa il senso nuovo da dare al giardino e alla sua valenza simbolica. Le cavallerie della città di Ferrara13 raccontano questa trasformazione, rivelano come l’illusione teatrale che faceva parte del giardino e della delizia diventi la loro sostanza, la loro motivazione.

Benvignante
Benvignante

Non più paradisi della mente, non più scena del principe, i giardini ferraresi assumono il segno magico dello specchio dove la Corte vede scorrere la propria esistenza metamorfizzata in magia, dove si ripensa, come ultima difesa alla tragedia storica avvertita imminente, ad un ruolo che non può che essere contemplativo, mentre i giardini si trasformano in monti, in paradisi, in laghi e mari, in fiumi e in foreste, dove la natura, un tempo raccolta nella sua essenza ideale nel giro concluso del giardino, si trasforma in prodigio, in eccesso, in stupore teatrale: il teatro come sostitutivo della vita. Per gli spettacoli delle Cavallerie, la duchessa non esita a distruggere il giardino delle duchesse; per gli stessi spettacoli, dove l’eroismo fittizio dei cavalieri del bene è in lotta contro le forze del male, muoiono davvero i cortigiani imbarcati sulla zattera che doveva assaltare i bastioni delle mura; e nella nuova moda teatrale, la Corte può ripensare il giardino come luogo magico, come l’Eden rovesciato, come il paradiso della natura che nasconde l’insidia – del resto fascinatrice e tentatricedelle arti di Armida. La lunga storia del giardino ferrarese non si consuma con la devoluzione: se pochi anni dopo, il Penna lamentava la fine di quei luoghi ameni, la distruzione di un mondo di cui il nuovo potere vuole cancellare anche il ricordo, nasce però il mito delle delizie e di quei giardini.

Oggi, quando il giardino storico non può che essere pensato, perché a difenderlo non sono sufficienti i restauri o la museificazione ed impensabile sarebbe ricostruirlo, può darsi che la funzione, le funzioni, svolte da esso possano essere ereditate dal paesaggio, da un paesaggio che appunto perché organismo vivente e nella cultura e nella realtà storicogeografica va strenuamente difeso dai nuovi barbari, per una ragione semplicissima: in esso ormai si compendia la nostra identità di abitatori di un eden perduto e ormai introvabile, a meno che la speranza della nuova delizia sia o debba essere rintracciata negli ultimi lembi di una natura accordata allo spirito umano.

note

1. Mi sia permesso di rimandare al mio saggio, “Picta poesis”: ricerche sulla poesia e il giardino dalle origini al Seicento, in Il paesaggio. Storia d’1talia. Annali 5, AA. W., Torino, Einaudi, 1982, specie al par. 3, L’ideologia della Corte: la funzione del giardino tra Rinascimento e Manierismo, pp. 703-749
2. Cfr. M. Venturi Feriolo, Nel grembo della vita. Le origini dell’idea di giardino, Milano, Guerini, 1989, specie al capitolo 3, Il giardino del Signore, pp. 75-93
3. Augustini Eugubini, Cosmopoeia, apud Sebastianum Griphyum, Lugduni 1535: « lo dunque mi figuravo che il Paradiso terrestre fosse corredato di tutte queste qualità, e che fosse un luogo eguale a questo, se è vero che anche quel luogo era tutto fiorito, circondato da grandi fiumi, ricco di alberi di ogni specie, popolato dagli animali più svariati: a tutto questo Adamo diede il nome. Tale doveva essere il Paradiso di Dio, quale è ora il paradiso del principe» (trad. C. Cazzola), p. 131
4. Devo alla cortesia amicale di Massimo Venturi Ferriolo sia la segnalazione del brano che la traduzione cui attende da molto tempo.
All’epoca della prima pubblicazione di questo saggio il volume non era ancora disponibile nella traduzione italiana. Ora si veda R. Borchardt, Il giardiniere appassionato, Milano, Adelphi, 1992, (N.d.r.)
5. Si veda la suggestiva tesi di F. Cardini, Il “Decameron”: un “Genesi” laico, “Quaderni medievali”, 12, 1981, pp. 105-20 e, sempre dello stesso autore, Appunti sul giardino medievale, in Minima medioevalia, Firenze, Arnaud, 1985, pp. 369-409
6. Cfr. la mia interpretazione, in G. Venturi, Il giardino e la poesia, in Il giardino veneto, Margherita Azzi Visentini (a cura di), Milano, Electa, 1988, pp. 227-42
7. Cfr. G. Venturi, Un’isola tra utopia e realtà, “Torquato Tasso”, catalogo della mostra, Bologna, Nuova Alfa, pp. 172-78.
8. Già da diverso tempo il significato delle colonne che recingevano Belvedere è stato oggetto di studi. Dopo la pubblicazione parziale del poemetto cinquecentesco Pulcher visus di Scipio Balbus, nell’ancor utile volume di G. Pazzi, Le delizie estensi e l’Ariosto, Pescara, Jecco, 1933, gli studiosi locali hanno insistito sul significato simbolico dell’impresa di Alfonso. Ma per una visione d’insieme e per un’interpretazione della farfalla sulla palla dorata posta in cima alla colonna, mi permetto di rimandare al mio, Scena e giardini al tempo dell’Ariosto, “Le scene dell’Eden. Teatro, arte, giardini nella letteratura italiana”, Ferrara, Bovolenta, 1979, pp. 35-52.
9. Cfr., Art and Lire at the Court or Ercole I d’Este: the “de Triumphis religionis” of Giovanni Sabadino degli Arienti, a cura e con introduzione e note, di W. L. Gundersheimer, Genève, Droz, 1972.
10. Si veda, L. Zorzi, Il teatro e la città, Torino, Einaudi, 1977, specie, per la situazione ferrarese, il primo capitolo, Ferrara il sipario: ducale. Di M. Pieri, La scena boschereccia nel Rinascimento italiano, Padova, Liviana 1983 dove la novità e la centralità dell’esperienza ferrarese sono acutamente indagate.
11. Atlante di Schifanoia, Ranieri Varese (a cura di), Modena, Panini, 1990.
12. T. Tasso, Gerusalemme libarata, Canto XVI, ottava l0.
13. Per le Cavallerie della città di Ferrara, rimando al mio saggio, La recita del cibo nelle corti del Rinascimento: Dello scalea di Giovan Battista Rossetti. “Schifanoia”, n. 7, pp. 167-168 e alla bibliografia che lo accompagna.